Da Veltroni a Schlein. Il Pd e il "giallo insoluto" lungo 17 anni

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AGI - Per Walter Veltroni, la nascita del Partito Democratico è "un giallo ancora insoluto". Il primo segretario dem risponde con ironia all'ironia di Fabio Fazio che gli chiede della sua recente attività di giallista. C'è qualcosa di insoluto nel Partito Democratico che taglia il traguardo dei 17 anni.

Lo si scorge nella fatica quotidiana di trovare "la quadra" fra le varie "anime" o "aree politiche", termini che nel linguaggio giornalistico hanno sostituito il poco amato - dai dirigenti dem - "correnti". Tante o poche che siano queste anime, la polarizzazione interna del Pd è tema che risale alla sua fondazione e alle storie culturali dalle quali nasce il partito: quella cattolica e popolare scaturita dalla Margherita e, prima ancora, dalla sinistra Dc; e quella socialista e post comunista derivante dal Pci-Pds-Ds. Storie che oggi si traducono nel binomio fra sinistra e liberal.

 

Il "giallo" di 17 anni fa

Il "giallo" ha inizio il 14 ottobre 2007, esattamente 17 anni fa. Al governo c'è l'Unione di Romano Prodi, che può contare su una risicatissima maggioranza. A vincere le primarie fondative per l'elezione del segretario e, per regola statutaria, candidato premier è Veltroni, rappresentante della sinistra, che sconfigge nettamente Rosy Bindi, area cattolico sociale, ed Enrico Letta, ex popolare, con oltre 2 milioni e 690 mila voti su circa 3 milioni 550 mila elettori.

 

 

Numeri che rimangono ineguagliati: la partecipazione alle primarie del Pd è andata via via calando fino alle ultime primarie che hanno visto vincitrice Elly Schlein con 587 mila voti su 1.092.042 votanti. L'idea di Veltroni è quella di un partito a "vocazione maggioritaria" che faccia a meno dei partiti "cespugli". A Spello, prima delle elezioni seguite alla caduta del governo Prodi, dice 'No' a una coalizione con la sinistra, salvo poi accettare l'appoggio di Antonio Di Pietro e Italia dei Valori. La sconfitta contro il neonato Popolo delle Libertà guidato da Silvio Berlusconi e la Lega Nord è netta: il Partito Democratico ottiene il 33,2% contro il 37,9% del Pdl. La coalizione di centrodestra arriva fino al 46,8% contro il 37,5% del centrosinistra.

Gli oltre 12 milioni di voti raccolti da Veltroni rimarranno un risultato, in termini assoluti, mai più eguagliato dal partito. Nel febbraio 2009 Renato Soru, governatore uscente della Regione Sardegna e esponente di punta, viene sconfitto alle elezioni regionali dal candidato del Pdl Ugo Cappellacci: Soru ottiene il 42,9% dei voti contro il 51,8% del suo avversario. La sconfitta in Sardegna è l'ultima di una serie e Veltroni decide così di dimettersi, dopo le tante critiche interne ricevute nei mesi precedenti per l'idea della vocazione maggioritaria e per aver rotto i ponti con la sinistra radicale.

Dopo Veltroni, è il suo vice Dario Franceschini - ex Margherita - a prendere la guida del partito dopo il voto dell'assemblea nazionale.

La svolta di Bersani

Alle Europee di giugno il risultato è però già scritto: il Pdl si riconferma primo partito mentre il Pd scende sotto gli 8 milioni di voti, fermandosi al 26,1% - quasi 10 punti in meno rispetto a Berlusconi. La leadership del partito passa nuovamente di mano il 25 ottobre di quello stesso anno, quando alle primarie Pierluigi Bersani - di nuovo un esponente della sinistra del partito - ottiene il 53,4% dei voti, superando lo stesso Franceschini ed Ignazio Marino.

Sotto la guida di Bersani il Pd lentamente risale nei consensi e riallaccia i rapporti con gli 'alleati storici': l'Idv e la sinistra rappresentata da Sel, guidata dall'ex di Rifondazione Comunista e governatore della Puglia, Nichi Vendola. Le elezioni amministrative del 2011 segnano un trionfo per il centrosinistra, che si aggiudica tutti i comuni più importanti e sette delle undici province in cui si vota. Il Paese però inizia a subire pesantemente i danni della crisi economica e finanziaria: con uno spread che tocca quota 550 punti ed il concreto rischio di default, a metà novembre il governo Berlusconi è costretto a dimettersi. Nasce il governo di Mario Monti, un esecutivo di soli tecnici, sostenuto dalla quasi totalità del Parlamento, Pd compreso. Restano all'opposizione solo la Lega Nord e l'Idv. Sarà il primo di una serie di governi di larghe intese a partecipazione dem.

 

 

Nel frattempo, all'interno del Pd, cresce il peso del giovane sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ex Margherita. È lui a mettere in discussione la leadership di Bersani, tanto da sfidare il segretario alle primarie di coalizione per la scelta del candidato premier. Al primo turno partecipano oltre 3 milioni di persone: Bersani e Renzi vanno al ballottaggio, nel quale il segretario sconfigge il giovane sfidante con il 60,1% dei voti. Il 2013 sembra l'anno giusto perché il Pd possa finalmente 'smacchiare il giaguaro', ovvero 'mandare a casa' Berlusconi.

Ma le elezioni terminano con una sostanziale non vittoria. I democratici conquistano 8 milioni e 600 mila voti, perdendone circa 3 milioni e mezzo rispetto al 2008. Il Pd viene addirittura superato di misura dal Movimento 5 Stelle, che ottiene un inaspettato exploit alla sua prima prova elettorale nazionale. Il centrosinistra non brilla: alla Camera ottiene la maggioranza assoluta dei seggi grazie al premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale (che sarà dichiarato incostituzionale solo a dicembre di quello stesso anno), nonostante abbia appena lo 0,4% dei voti in più del centrodestra.

Al Senato invece il centrosinistra rimane ben lontano dalla maggioranza, persino allargandosi ai centristi di Scelta Civica, partito tenuto a battesimo da Monti poche settimane prima dalle elezioni. Le consultazioni di Bersani alla Camera, davanti ai Cinque Stelle Roberta Lombardi e Vito Crimi, rappresentano un colpo all'immagine del segretario.

 

La crisi di Bersani e il record di Renzi

I grillini sembrano farsi beffe delle offerte di dialogo del leader Pd e Bersani finisce sotto accusa. Ma la crisi esplode in occasione dell'elezione del Presidente della Repubblica che dovrà succedere a Giorgio Napolitano: i candidati ufficiali del Pd, prima Franco Marini e poi Romano Prodi, vengono affondati da 'franchi tiratori' interni in quella che verrà ricordata come l'assemblea dei 101, tanti i voti che mancano a Prodi. Bersani appoggia la rielezione di Napolitano e poi si dimette. La crisi si conclude con la nascita del governo di Enrico Letta, sostenuto da una maggioranza di larghe intese composta da Pd, Pdl e Scelta Civica.

All'interno del partito, dopo una breve reggenza affidata a Guglielmo Epifani, l'8 dicembre 2013 Matteo Renzi conquista la segreteria del Pd. Nonostante la rassicurazione di Renzi, "Enrico stai sereno", la direzione del Pd a guida renziana "sfiducia" Letta, che si dimette il 14 febbraio 2014.

 

 

Incaricato da Napolitano, Renzi forma il nuovo governo. Il nuovo premier punta ad attuare un ampio programma di riforme, in primis quelle istituzionali: la nuova legge elettorale e la riforma costituzionale sono il frutto di un accordo con Silvio Berlusconi, il cosiddetto Patto del Nazareno, che avrà vita breve. A gennaio 2015, con l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Berlusconi e Forza Italia interrompono la collaborazione sulle riforme. Alle europee dello stesso anno, il Pd ottiene 11 milioni e 200 mila voti, 40.1 per cento del consenso. Un record. I mille giorni di governo Renzi, fra Jobs Act e Buona Scuola, si infrangono contro la riforma costituzionale, sulla quale il presidente del consiglio gioca la carta del referendum confermativo.

La campagna referendaria, per scelta comunicativa del premier, si trasforma in un quesito sulla persona di Renzi. Che ne esce sconfitto: la riforma viene bocciata con il 59,1% dei voti e il segretario rassegna le dimissioni da Palazzo Chigi. Renzi si dimette ed è sostituito a Palazzo Chigi da Paolo Gentiloni. Il 30 aprile 2017 Renzi si riconferma segretario alle primarie. Nell'anno che segue continua il logoramento del Pd, indebolito da una scissione che vede uscire dal partito un pezzo di sinistra, fra cui Bersani. Alle elezioni, il Pd scende sotto il 19% e raccoglie poco piu' di 6 milioni di voti, 4 milioni e mezzo in meno del Movimento 5 Stelle e 5 milioni in meno rispetto alle Europee 2014.

Questa volta Renzi si dimette dalla segreteria, che passa al suo vice Maurizio Martina, il quale si dimetterà a novembre aprendo la strada al congresso. A vincere, il 3 marzo 2019, è la mozione di Nicola Zingaretti, esponente della sinistra del partito, che vince contro la mozione sostenuta da Renzi. Zingaretti si trova subito ad affrontare le elezioni europee contro le forze dell'allora maggioranza gialloverde, guidata da Giuseppe Conte con il sostegno della Lega di Matteo Salvini.

Il Pd ottiene il 22,7 per cento dei voti, attestandosi come seconda forza d'Italia dopo la Lega, che ottiene il 34,26 per cento. Il Conte 1 entra in crisi dopo la richiesta di "pieni poteri" avanzata da Salvini. A settembre, il Pd partecipa alla nascita del governo Conte 2, con la benedizione di Renzi. Ma soprattutto, subisce la seconda scissione della sua storia: è lo stesso Renzi ad uscire con un gruppo di parlamentari dal partito e a fondare Italia Viva. Una mossa con la quale Renzi si pone come ago della bilancia del neonato governo rossogiallo. Arriva, tuttavia, l'emergenza Covid e il Pd con gli alleati M5s si trova a dover far fronte alla crisi sanitaria. Matteo Renzi attende la fine della fase piu' acuta dell'emergenza e, il 13 gennaio 2021, annuncia il ritiro degli esponenti di Italia Viva dall'esecutivo, avviando la crisi di governo.

 

Il ritorno di Zingaretti e l'outsider Schlein

Zingaretti, che ha definito Conte "un punto di riferimento del centrosinistra", lavora per tenere in piedi il governo. Senza successo. Poco dopo nasce il governo di larghe intese guidato da Mario Draghi. Il Pd ne fa parte ancora una volta, ma Zingaretti si dimette in polemica con il suo stesso ceto dirigente, accusato di pensare solo alle poltrone: "Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie".

In primavera, l'assemblea del Pd richiama Enrico Letta. L'ex premier aveva scelto di dedicarsi anima e corpo al suo incarico nella prestigiosa SciencePo di Parigi. Accetta di guidare il partito e il 14 marzo viene eletto segretario, sostenuto in chiave anti Renzi anche dalla sinistra del partito, lui che proviene dal Partito Popolare. Pur lontano, infatti, l'impronta dell'ex premier si fa sentire sul partito dove rimane forte l'anima liberal di derivazione renziana. Il primo test elettorale è positivo: vince le suppletive nel collegio di Siena. Ma il test della vita è quello delle politiche del 2022: il governo Draghi, infatti, cade nel luglio 2022 per mano del Movimento 5 Stelle e di Forza Italia che escono dall'Aula al momento del voto di fiducia. Il voto di ottobre vede il Pd ai suoi minimi storici: i dem si assestano su un deludente 19,1 per cento. Letta si dimette, accettando di guidare la fase congressuale.

 

 

A sfidarsi è il presidente dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, sostenuto dai riformisti e moderati del partito, ed Elly Schlein, esponente che dal partito era uscita anni prima in polemica con la linea Renzi. A vincere sovvertendo ogni pronostico è proprio Schlein che ha in "rinnovamento" la propria parola d'ordine contro quelli che definisce i "cacicchi", ovvero i potentati locali accusati di controllare i pacchetti di voti e la vita interna del partito. È a Schlein che spetta il compito di provare a risolvere il giallo del Pd. Purtroppo per la segretaria, però, non si può correre all'ultima pagina per vedere come finisce. 

 

 

 

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