Quelli della classe 1985 | Cristiano Ronaldo

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Nel 1985 il mondo aveva il fiatone del Novecento, ma nessuna intenzione di fermarsi. Alla Casa Bianca c'era Ronald Reagan, al Cremlino Mikhail Gorbaciov. L'Italia di Craxi provava a guardare avanti, tra grandi ambizioni ed enormi contraddizioni. Il 1985 era la Guerra Fredda che cominciava a sciogliersi con l'Europa ancora divisa da un muro. L'anno dei Queen a Wembley con la Thatcher a Downing StreetMaradona già faceva sognare Napoli, mentre l'NBA scopriva Michael Jordan. Ayrton Senna stringeva forte il volante e il mondo piangeva la strage dell'Heysel. Nell'infinità del cielo si scopriva il buco nell'ozono e dalla profondità del mare riemergeva lo scheletro del Titanic. Era il tempo dei walkman, delle VHS impilate accanto a una TV ingombrante. L'anno del Commodore 64, del primo dominio web quando Internet era solo nella testa di un uomo che viveva a Ginevra. Era una Polaroid che scattava il presente e un fax che consegnava il futuro. Tutti cantavano “We Are the World”, convinti che una canzone potesse unire il pianeta. Al cinema usciva Ritorno al Futuro, in libreria Rumore Bianco. 

Ma quarant'anni fa nasceva anche una generazione di atleti che avrebbe riscritto regole e infranto record. C'è chi è ancora lì, in prima linea. E c'è chi ha già voltato pagina. Ma le loro carriere, oggi, raccontano cosa vuol dire resistere, reinventarsi, lasciare un segno. Questa è la grande storia della leva sportiva del 1985.

Capitolo 1, Cristiano Ronaldo

Chi nasce in un'isola impara presto che il mondo è altrove. Intorno c'è il mare, infinito. E quando ti circonda da ogni lato, il mare non è solo bellezza: è distanza. Madeira, se aprite Google Maps, è un punto minuscolo nell'Oceano Atlantico. Negli anni Ottanta era periferia della periferia. Un posto difficile da raggiungere, ancora più difficile da lasciare. Portogallo, senza essere davvero Portogallo. Crescere lì voleva dire rischiare di restare ai margini. Fuori dalle rotte, lontano dagli sguardi. Chi voleva emergere, doveva andarsene. Presto. Cristiano Ronaldo è nato lì, a Funchal.

È nato lì, ma poteva anche non nascere. Quarto figlio di una famiglia povera: padre giardiniere di origini capoverdiane, segnato dalla guerra in Angola che gli creerà qualche problema di troppo con l'alcol, e madre cuoca ma capace di arrabattarsi dietro ogni possibile occupazione per arrotondare lo scarno bilancio. Hanno già tre figli. Funchal non è la Madeira da cartolina, quella dei turisti. Si trova nella parte meno frequentata dell'isola, anche d'estate.

Dolores, la madre, non è sicura di voler portare avanti quella gravidanza, inaspettata e preoccupante. Un figlio in più è un problema, soprattutto per chi non ha neanche una casa propria e tante bocche da sfamare. Il nome Cristiano viene scelto subito, con entusiasmo, soprattutto dalla zia e dalle sorelle. Il secondo nome lo aggiunge Dolores, guardando oltre l'oceano, verso Washington. Il modello è Ronald Reagan. L'augurio, forse ingenuo, è che quel bambino possa avere lo stesso successo dell'attore diventato presidente.

I primi calci, il primo abbandono

Cristiano cresce in uno dei quartieri più popolosi di Funchal: Santo António, nella parte alta dell'isola. La sua prima casa, dal tetto malandato, si trova in una zona chiamata Quinta Falcão, una manciata di strade in salita, lontane dai circuiti turistici. Proprio lì, su un muro vicino a casa, comincia a tirare i primi calci al pallone. Anni dopo, pubblicherà una foto di quel campo su Instagram, scrivendo: “Il posto dove tutto è iniziato. Quel bambino non immaginava nemmeno lontanamente ciò che sarebbe arrivato dopo”.

 Il calcio, all'inizio, è solo una scusa per stare lontano dai compiti. La scuola è un desiderio di Dolores. A lui interessa poco. Cristiano pensa solo a ciò che farà dopo, con gli altri ragazzi di Funchal, sfuggendo al controllo delle sorelle e precipitandosi fuori dalla porta ogni volta che può. A metà degli anni ‘90, in tutta Madeira, si gioca per strada, con porte occasionali, a volte fatte con solo due pietre. Se passa un'auto, si spostano. Appena la carreggiata si libera, si ricomincia. Cristiano impara a controllare la palla, a usare il destro e il sinistro, a dribblare avversari sui terreni più difficili, sconnessi, tra crepe e buche sull'asfalto. È il più veloce, il più talentuoso, il più egoista. Si arrabbia se perde, se non gli passano la palla. I compagni lo chiamano “piagnucolone” ma, per quanto corre e per quanto è magro, conquista presto anche un altro soprannome. Abelhinha. piccola ape.

 

 

A otto anni entra nell'Andorinha, la squadra dove, con la divisa da custode, lavora suo padre. Dopo poco lo cercano due club: il Marítimo, il più noto dell'isola, e il Nacional. È conteso. Il Marítimo si muove tardi, non è convinto. Ronaldo va al Nacional. Il suo primo passaggio “ufficiale” avviene in cambio di due set di magliette e alcuni palloni consegnati all'Andorinha. È una scelta importante: lì cominciano a seguirlo sul serio. E lì arriva la segnalazione allo Sporting Lisbona.

A casa, intanto, si va avanti con poco. Vivono in affitto, si tagliano le spese. Ma cresce l'idea che il più piccolo può farcela, anche se i palloni scarseggiano o si bucano in fretta. Uno glielo regala il fratello Hugo. Cristiano lo tiene da conto, lo tratta come fosse una reliquia, ma lo usa ogni giorno. Dolores, quando può, gli cuce le magliette da gioco. Quando lo Sporting lo chiama per un provino, prende un volo per Lisbona. Da solo. Ha dodici anni. È la prima vera partenza della sua vita. Non tornerà mai più a vivere a Madeira. Da quel momento niente sarà più periferia.

 

 

Lisbona

I tram che sferragliano, la gente che corre verso il lavoro. Il rumore dei negozi, gli artisti di strada. Cristiano si ritrova catapultato in un mondo che finora era esistito solo nelle storie di chi viaggiava tra Madeira e il continente. E deve fare i conti con la solitudine mentre tutto intorno fa rumore. Il provino è andato bene. Ha incantato con i suoi numeri da giocoliere, la sua velocità ha impressionato lo staff dei Leões. I Leoni. Ma sono pochi quelli che passano del tempo con lui. È sempre un po' egoista, piagnucolone, concentrato su sé stesso. E poi c'è quell'accento, inconfondibile, tipico di chi arriva da fuori: basta una parola per essere etichettato.

Chiama sua madre ogni giorno. Minaccia, senza crederci davvero, di fare i bagagli e tornare a casa, sulla sua isola. “È stato il periodo più duro, ma anche il più formativo della mia vita”, dirà anni dopo. L'accademia, però, gli dà un vantaggio: vive a pochi passi dai campi e dalle palestre. E lui è sempre lì. A inventare, a ripetere, a perfezionare. Un piccolo prestigiatore con piedi che sembrano non fermarsi mai. Ma Ronaldo non si fa troppi amici. Inizia a ripetere a tutti che l'unico suo obiettivo è diventare il giocatore più forte del mondo. Sogghignano, non gli credono. Eppure, oggi, l'Academia de Alcochete, dove sono cresciuti campioni come Luís Figo e Ricardo Quaresma, è parte di un complesso più grande, che da qualche anno porta il suo nome: Academia Cristiano Ronaldo.

Non è solo talento. Quella di Cristiano è un'ossessione che lo spinge ogni giorno a fare di più. Il cuore accelera, batte a mille. Anche quando non dovrebbe, anche a riposo. È un problema. C'è qualcosa che non va. A 15 anni arriva la diagnosi: tachicardia. Anche il suo cuore sembra non voler aspettare e corre troppo veloce. Bisogna intervenire subito altrimenti la carriera può finire prima ancora di cominciare. Viene operato. In pochi mesi è di nuovo in campo, come se nulla fosse.

I tecnici dello Sporting capiscono che quel ragazzino è già pronto per essere buttato nella mischia. Così gioca spesso con i più grandi, a volte più campionati insieme. Durante la stagione 2002-2003, Cristiano fa qualcosa che non si era mai visto prima: gioca, nel giro di pochi mesi, con l'Under-16, l'Under-17, l'Under-18, la squadra B e la prima squadra. Salta le tappe. O meglio: le brucia tutte. È il primo nella storia dello Sporting a farlo.

A 17 anni debutta con la prima squadra. È il 14 agosto 2002, partita di qualificazione di Champions contro l'Inter. Lo Sporting aveva appena vinto il campionato ma non aveva diritto a entrare alla fase a gironi, quindi doveva affrontare i preliminari. Quella della squadra di Lisbona è un'estate difficile, molti giocatori importanti sono assenti per infortunio. Cristiano gioca diverse amichevoli, scalpita, a volte esagera con i dribbling, ma i tifosi sono già pazzi di lui. Entra nella ripresa, prova a inventare ma alla fine la partita finisce a reti inviolate. Dall'altra parte, sempre per infortunio, manca l'altro Ronaldo, O Fenômeno. Ma nonostante tutto sarà l'Inter, nella gara di ritorno in Italia, a qualificarsi, grazie ai gol di Di Biagio e Recoba. A San Siro non entra. Laszlo Boloni, allenatore rumeno dello Sporting, preferisce inserire Kutuzov e Danny. Ma per Cristiano è solo l'inizio. Il primo passo fuori dalla gabbia.

 

 

L'amichevole che cambia tutto

Allo Sporting, Ronaldo non può più passare inosservato. Non è particolarmente amato dai compagni: parla poco, urla tanto, si allena troppo, sembra vivere in un altro ritmo. In un universo parallelo, dove lo specchio, e l'immagine che rimanda, sono al centro di tutto. Ma non è solo vanità. Cristiano comincia a stufarsi di chi dice che è troppo piccolo, esile, minuto. Che non ce la farà a fare il grande salto. E allora studia il proprio corpo, osserva i muscoli, controlla se sta migliorando. Ma non è semplice.

Il rapporto con gli allenatori è complesso. Pretende molto, anche dagli altri. A volte troppo. Ma Boloni lo difende. Ha visto tanti giovani, ma pochi con quella fame. Dice che Cristiano non è solo promettente: è determinato, ossessivo. Qualità che, per uno come lui, valgono più della necessità di contenere certi eccessi emotivi.

Intanto, il suo nome è arrivato sui taccuini di direttori sportivi, osservatori, agenti, esperti di mercato in tutta Europa. Ronaldo ha un manager abile e calcolatore: Jorge Mendes, che inizia a intavolare discussioni con Liverpool, Arsenal, Barcellona. Non ha fretta. Sa che il primo salto del suo assistito è come un all-in a poker. Serve la mano giusta. E pazienza. Tanta pazienza.

Poi arriva quella partita. Il treno che passa a tutta velocità e su cui, se si è pronti, è impossibile non salire. È l'estate del 2003. Il Manchester United, fresco campione d'Inghilterra, vola a Lisbona per inaugurare il nuovo stadio José Alvalade. Amichevole di lusso. Gli spalti sono gremiti, la gente canta nonostante il caldo afoso e opprimente. I riflettori sono tutti sui Red Devils.

Ronaldo sa di avere una chance per impressionare. Ancora una volta, vuole rubare la scena. Gioca largo, salta tutti. Fa impazzire John O'Shea, costringe Sir Alex Ferguson a cambiare modulo a partita in corso. E poi nasce la leggenda. Quell'aneddoto che non si sa mai se è davvero accaduto o solo perfezionato nel tempo. Ma i ricami sono talmente belli da non volerli mettere in discussione.

Si dice che alla fine del primo tempo, i giocatori dello United, Gary Neville, Rio Ferdinand, Roy Keane, siano andati da Ferguson per dirgli: “Prendilo. Ora”. Ferguson chiama Peter Kenyon, allora chief executive del club. La trattativa parte subito. Ronaldo dirà che a convincerlo fu proprio Ferguson: “Mi promise che avrei giocato almeno cinquanta partite. Wow. Mi fece sentire bene.”

Difficile dargli torto. Jorge Mendes sorride. Era una delle opzioni che aspettava. A Manchester è appena andato via David Beckham, destinazione Madrid. Una leggenda da rimpiazzare. Una fascia scoperta. Una maglia pesante. Un buco enorme da riempire. Sono gli ingredienti perfetti per la storia che Mendes cercava per Cristiano. Per uno come lui, con quel carattere lì, con quella sfrontatezza lì, la pressione non è un problema.

Per Ronaldo è arrivato il momento di salutare Lisbona e il Portogallo. Ha appena 18 anni. Ma il suo viaggio è cominciato da tempo. Ora, semplicemente, ha strappato un biglietto per sedersi in prima classe.

In Inghilterra, un altro calcio

Un calcio alla caviglia. Una botta al ginocchio. Mani ovunque. Strattonato, trattenuto, abbattuto. L'impatto con la Premier è fisico. In Inghilterra i difensori non aspettano: se possono, ti fermano subito. Ogni entrata è un livido. Ogni protesta, una critica. Le etichette, di nuovo, arrivano in fretta: showman, simulatore, troppo leggero. È rapido, ma la velocità non basta. Non è solo un problema fisico. C'è anche la percezione della gente. Le meches bionde, l'atteggiamento, la camminata a petto in fuori. A volte sembra più un modello che un calciatore. I tabloid non gli danno tregua e i giornali lo attaccano. “Fa troppe finte”, “gioca per sé stesso”, “non passerà mai il pallone”.

Ferguson non è preoccupato. Lo difende, lo protegge. Del resto, la prima cosa che ha fatto è togliergli l'anonimo numero 28 dalle spalle per il numero 7. Il leggendario numero 7. Quello di Best, di Cantona e di Beckham. Intanto Cristiano passa ore in palestra. Aumenta massa, soprattutto sulle gambe e nella parte alta del corpo. Comincia a reggere gli urti, a restituire le botte, a saltare più in alto, a dare spallate. Cade meno, dribbla meglio. Quando lo raddoppiano, riesce a sgusciare via. Cambia alimentazione, intensifica gli allenamenti, si affida a preparatori e fisioterapisti.

L'adattamento è rapido. I senatori dello United gli stanno addosso: Giggs, Scholes, Ferdinand. “In una partita in cui non lo seguiva in copertura Roy Keane lo ha affrontato davanti a tutti”, racconterà Gary Neville. “Ma poi era il primo a circondare l'arbitro quando Cristiano subiva un'entrata particolarmente dura”. Lo rimproverano quando esagera, lo gratificano quando fa la differenza.

Nel suo primo anno nello United riesce comunque a lasciare il segno: vince una FA Cup in cui segna il primo dei 3 gol al Milwall, alza al cielo una Community Shield, arriva terzo in Premier e agli ottavi di Champions. Poco per uno come lui ma quel che basta per salvare una stagione.

 

 

Quella maledetta Grecia

Giugno 2004. Il Portogallo ospita l'Europeo per la prima volta nella sua storia. La nazionale è solida, con esperienza e qualità. In panchina c'è Luiz Felipe Scolari, campione del mondo due anni prima con il Brasile. In campo, Ricardo in porta; Carvalho e Jorge Andrade al centro della difesa; Costinha, Maniche e Deco a centrocampo. Davanti Luis Figo e Pauleta. In mezzo a loro, un ragazzo di 19 anni: Cristiano Ronaldo.

Viene da una stagione irregolare con il Manchester United. Ha segnato poco, ha giocato a intermittenza. Ma Scolari lo convoca e lo inserisce subito nelle rotazioni. Alla prima partita, contro la Grecia, parte dalla panchina. Entra nella ripresa, segna di testa su corner di Figo. Si toglie la maglia, viene ammonito. Gioisce tanto, ma troppo presto. Il Portogallo perde 2-1.

Nei match successivi Scolari gli dà fiducia. Contro la Russia gioca titolare. Contro la Spagna resta in campo per tutta la partita e partecipa all'azione decisiva: un assist involontario dopo una deviazione. Il Portogallo passa ai quarti e subito elimina l'Inghilterra ai rigori. Ronaldo non trema, nonostante il ‘derby' con alcuni compagni dello United. Segna il suo rigore con freddezza. In semifinale contro i Paesi Bassi è ancora protagonista: segna di nuovo, ancora di testa, ancora su corner. È il gol che sblocca la partita. Al triplice fischio alza le braccia al cielo: il Portogallo vince 2-1 e vola in finale.

L'ultima partita è di nuovo contro la Grecia. Apertura e chiusura. Stadio da Luz, la Catedral, come lo chiamano i tifosi del Benfica. Il Portogallo è nettamente favorito. Ma la Grecia di Otto Rehhagel non è lì per caso. Difesa a cinque, due linee basse, marcature strette. Nessuno spazio, nessuna corsa, nessuna imbucata. Al 57' segna Charisteas su calcio d'angolo: l'unico vero tiro in porta degli ellenici. Il Portogallo è sotto choc e non reagisce.

Ronaldo gioca titolare, ma viene neutralizzato. Poco spazio, pochi palloni giocabili. Ci prova, spesso da solo, ma non incide. A fine partita, come faceva da bambino, piange. L'immagine fa il giro del mondo.

L'Europeo finisce così: la Grecia campione, il Portogallo secondo. Per molti, un'occasione storica sprecata. Per Ronaldo, forse, un acceleratore. Gioca tutte le partite, segna due gol, e diventa il più giovane finalista nella storia del torneo. E soprattutto: comincia a maturare l'idea che far vincere un trofeo al suo Paese diventerà una missione personale. Intanto torna a Manchester. E non è più lo stesso.

 

 

Gli anni d'oro con i Red Devils

Perdere a volte aiuta. Ronaldo non sembra più un bambino. Comincia a parlare meglio l'inglese, a integrarsi nello spogliatoio. Lavora. Ascolta. Fatica. Non segna molto, 9 gol in tutte le competizioni, ma è pienamente dentro il meccanismo di gioco pensato da Ferguson. Gioca largo a sinistra, ma con meno fronzoli. Inizia a evitare i raddoppi, a tagliare verso l'area con più intelligenza. È un ruolo che gli toglie libertà e spettacolo, ma gli dà soluzioni offensive più concrete. Meno dribbling, più letture. Meno effetti speciali, più precisione.

Nel frattempo, intorno a lui lo United attraversa una fase di transizione. Finisce l'era di Roy Keane. Iniziano a emergere Rooney, Fletcher, Park. Si forma una nuova spina dorsale con Van der Sar, Vidic, Evra, Carrick. C'è anche Pepito Rossi. Lo United cambia pelle, e Cristiano cresce insieme al gruppo. Nel 2005/2006 vive una stagione complicata. Segna meno, subisce fischi, anche in trasferta. È ancora troppo português per l'Inghilterra. Ma Ferguson non lo molla. Lo United vince la Coppa di Lega, lui segna in finale nel 4-0 al Wigan. Un altro piccolo passo.

Il vero spartiacque arriva nell'estate del 2006. Ai Mondiali in Germania, durante Inghilterra-Portogallo, Wayne Rooney, suo compagno allo United, viene espulso dopo un contatto con Ricardo Carvalho. Ronaldo protesta con veemenza, si fa sentire con l'arbitro, poi strizza l'occhio verso la panchina. L'immagine diventa virale. In Inghilterra si scatena una campagna contro di lui. C'è chi chiede, con insistenza, la sua cessione.

Allo United si teme uno strappo con Rooney. Ma al rientro, i due si chiariscono. “Fa parte del gioco”, dirà Wayne. Ancora gelo ma nessuna rottura. Solo un carico di aspettative in più sulle spalle di Cristiano. Deve vincere. Deve segnare. Deve farsi perdonare. I numeri della stagione 2006/2007 parlano chiaro: 23 gol, 14 assist, premiato come miglior giocatore dell'anno. Lo United torna a vincere la Premier dopo tre anni. E Ronaldo, per la prima volta, è decisivo in ogni fase del gioco.

La stagione successiva è ancora più netta. Ronaldo segna 42 gol tra campionato e coppe. Capocannoniere della Premier con 31 reti, della Champions League con 8. Vince ancora il titolo nazionale. E a Mosca, nella finale contro il Chelsea, segna di testa. Poi sbaglia il rigore nella lotteria finale. Piange. Teme di aver rovinato tutto. Ma Terry scivola, Anelka sbaglia, lo United è campione d'Europa.

A fine anno arriva il Pallone d'Oro. Primo portoghese a vincerlo dopo Luis Figo (2000), terzo di sempre dopo Eusebio (1965). Per il Manchester United è il primo dopo George Best (1968), esattamente 40 anni dopo.

Nel 2009 Ronaldo è ancora determinante, ma qualcosa cambia. Il Real Madrid si muove. La trattativa esiste. Ferguson riesce a trattenerlo per un'altra stagione. Ronaldo segna 26 gol, lo United vince la terza Premier consecutiva e arriva ancora in finale di Champions. Ma a Roma, contro il Barcellona, crolla. Il 2-0 firmato Eto'o e Messi segna la fine di un ciclo. L'argentino gli ruba tutto: scettro, corona, attenzione dei media, considerazione.

A fine stagione, la notizia è ufficiale: Cristiano Ronaldo viene ceduto al Real Madrid. Dietro l'operazione c'è ancora una volta Jorge Mendes, il suo agente. Il trasferimento segna la fine di un percorso e l'inizio di qualcos'altro. Il dualismo con Lionel Messi, fino a quel momento solo potenziale, sta per diventare la rivalità più incredibile della Liga e della storia del calcio moderno.

Anni dopo, Ferguson racconterà: “Sapevamo che Cristiano voleva andare al Real Madrid. Era il suo sogno da bambino. Ha dato tutto per noi, e abbiamo rispettato il suo desiderio di affrontare una nuova sfida.”

Negli anni trascorsi al Manchester United, Cristiano Ronaldo ha giocato 292 partite ufficiali, segnando 118 gol. Ha vinto 3 Premier League, 1 Champions League, 1 FA Cup, 2 Coppe di Lega, 1 Community Shield e 1 Mondiale per club. Durante i 6 anni all'Old Trafford, insomma, Cristiano Ronaldo ha imparato la cosa più difficile per un calciatore. Ha imparato a vincere.

Il Real Madrid

Al Bernabéu, ad attenderlo, ci sono ottantamila persone. Quando esce dal sottopassaggio, vestito tutto di bianco, il boato è assordante. Non ha la maglia numero 7 perché quella è ancora sulle spalle di Raúl. Sceglie il 9. È quasi un messaggio implicito, da parte di uno che ha completato la sua trasformazione. Niente più fascia laterale, ma area di rigore. Niente più sgroppate, ma finalizzazione. Gol, gol e ancora gol.

Il portoghese arriva al Real Madrid per una cifra record: 94 milioni di euro. È il trasferimento più costoso della storia del calcio. Florentino Pérez, tornato presidente, lo ha scelto come simbolo di una nuova era dei Galácticos. Madrid era il suo sogno. Ma anche quello di sua madre, Dolores, che lo aveva sempre spinto in quella direzione. Ora che è lì, sa che inizia una doppia sfida. Una contro il Barcellona. E una contro Messi.

La stagione comincia bene. Segna al debutto contro il Deportivo. Poi va in gol alla seconda, alla terza, alla quarta. Parte forte. Ma intorno a lui il Real è ancora una squadra sbilanciata, alla ricerca di equilibrio. In panchina c'è Manuel Pellegrini, se lo ricordano in pochi. Non durerà molto. A centrocampo si muove tanto il pallone, ma le idee sono confuse. E dietro, si balla.

A ottobre, Cristiano si fa male. Distorsione alla caviglia. Salta nove partite. Rientra a novembre, ma la stagione ha già preso una piega storta. In Champions il Real esce agli ottavi contro il Lione. In Liga chiude secondo, dietro al Barcellona. Zero titoli. Ronaldo chiude l'anno con 33 gol in 35 presenze. Numeri forti, ma isolati. Il Barça, nel frattempo, continua a vincere. Gioca un calcio più rapido, più collettivo. Guardiola ha trovato un sistema. E al centro c'è Messi.

La stampa parla di duello. I due si incrociano nei Clásicos, si rincorrono nei tabellini. Ma tra loro non c'è mai stata una vera ostilità. “La parola ‘rivalità' si usa per la guerra, non per lo sport”, dirà Ronaldo a Piers Morgan anni dopo. “Messi è uno dei migliori. Ma non ho mai pensato a lui come a un nemico. Siamo migliorati molto, entrambi, nell'affrontarci.”

A Madrid, però, la tensione è costante. Ogni gesto viene letto, ogni parola analizzata. Ronaldo capisce che non basta segnare. Deve costruire qualcosa. Dentro e fuori dal campo. Cambia abitudini. Riduce le uscite. Studia di nuovo il proprio corpo. Allena la velocità in piscina, potenzia le gambe correndo sulla sabbia, inserisce la crioterapia nella routine quotidiana. Più tardi userà anche una camera iperbarica per accelerare il recupero muscolare.

Nel 2010 arriva José Mourinho. Ha appena vinto tutto con l'Inter. La Champions al Bernabéu, proprio lì, dove adesso si insedia. Ronaldo trova un alleato, uno che parla la sua stessa lingua, dentro e fuori dal campo. Si somigliano. Entrambi maniacali. Entrambi ossessivi. Entrambi con una personalità forte. E senza peli sulla lingua.

La squadra cambia assetto. Diventa più verticale, più cinica. I Clásicos si moltiplicano: in Liga, in Champions, in Coppa del Re. E diventano vere battaglie. Mourinho contro Guardiola. Ronaldo contro Messi. Non è più solo calcio. È un confronto ideologico tra due modi opposti di vedere il gioco.

Il primo vero trofeo arriva nell'aprile 2011: finale di Coppa del Re a Valencia, sempre contro il Barça. Tempi supplementari. Cross di Di María, stacco imperioso di Ronaldo. Gol. È il suo primo titolo con il Real. Un'esplosione. Nella notte, festeggia con la coppa tra le mani, sul tetto del pullman. La coppa però cade dalle mani di Sergio Ramos, finisce sotto le ruote del bus, si rompe. Mai vista una cosa del genere.

Nel frattempo, i numeri di Ronaldo diventano irreali. Segna in ogni modo, da ogni posizione. Chiude la stagione 2010-11 con 53 gol. Poi 60 l'anno dopo. Poi 55. E ancora 51. Un ciclo spietato. Per cinque stagioni consecutive segnerà più di 50 gol. Nessuno come lui.

Ma niente basta a placare le ansie dei tifosi. Nella testa di ogni madridista c'è solo un'idea fissa: La Décima. Non importa quanti gol segna Ronaldo, né quanti trofei si accumulano. Tutto ruota intorno a quella coppa, la Champions. Quella dalle grandi orecchie. Quella che sfugge da anni.

Alla fine della terza stagione, quando lo spogliatoio si sfalda, Mourinho decide di andarsene. Lascia dopo tre titoli e infiniti scontri. Interni, esterni, ovunque. Cristiano invece resta, il suo compito non è ancora finito.

Nel 2013 arriva Ancelotti. Per certi versi è l'anti-Mourinho. Ricompone uno spogliatoio stanco e deluso. Con lui, Ronaldo cambia ancora. Diventa ancor più il goleador, il punto fermo, di una squadra che coltiva l'attesa, si scopre meno e rinnega la frenesia. Quello è anche l'anno del primo ‘Sium', contro il Chelsea, negli Stati Uniti, durante un'amichevole estiva. “Tutto è nato in maniera naturale, ma ho deciso di continuare perché ai tifosi piaceva quell'esultanza”, dirà il portoghese.

Il Real prende Gareth Bale per 100 milioni. C'è Isco, c'è Modrić, c'è Benzema. E in porta, dopo l'epurazione silenziosa di Casillas, arriva Keylor Navas. Ancelotti ridisegna il gioco, lo rende più fluido. Meno scontri frontali, più controllo. Più soluzioni.

In campionato il Real fallisce, chiudendo solo terzo. In Copa del Rey vince ancora contro il Barça ma con Ronaldo in tribuna per infortunio. La stagione, però è decisa dalla Champions. Il cammino è feroce. Ai quarti schiantano il Borussia Dortmund. In semifinale, umiliano il Bayern di Guardiola all'Allianz Arena: 4-0. La finale è a Lisbona. Lo stadio è quello del Benfica, ancora la Catedral, ma Ronaldo sente comunque aria di casa. Di fronte c'è l'Atlético Madrid del Cholo Simeone. Gli eterni rivali cittadini. Gli altri di Madrid. I Colchoneros. È una partita tesa, ruvida. Il Real va sotto. Ma al 94' Sergio Ramos pareggia i conti. Da lì, è tutta discesa: Bale, Marcelo, e infine Ronaldo su rigore. Quattro a uno. Fine. La Décima è realtà. In quell'edizione Ronaldo segna 17 gol, record assoluto della manifestazione. E alza la coppa, finalmente, con la camiseta blanca.

Dopo la Décima, il Real rallenta. Nell'anno successivo non arrivano titoli. Ancelotti viene esonerato. Arriva Benítez, ma dura pochi mesi. Sembra di rivivere il periodo Pellegrini. Poi, in un freddo gennaio del 2016, arriva Zidane. Nessuna esperienza da primo allenatore, ma un'aura da intoccabile. Zizou si fa ascoltare. Rimette ordine. È un pari nello spogliatoio. E con lui il Real ritrova slancio. In quella stagione vince un'altra Champions. In finale, ancora l'Atlético. Decidono i rigori. Cristiano segna l'ultimo. Ma il suo impatto è ancora più decisivo nell'edizione successiva,: 10 gol tra quarti, semifinali e finale. Alza la coppa a Cardiff, contro la Juve. Non c'è partita.

 

 

Il riscatto lusitano

Il Portogallo arriva all'Europeo del 2016 con un buon gruppo, ma senza le aspettative di chi deve vincere. Ronaldo, invece, vuole vincere a tutti i costi. Nella sua testa il ricordo della sconfitta con la Grecia è ancora tanto forte, nonostante siano passati 12 lunghi anni.

L'allenatore è Fernando Santos, pragmatico e poco incline agli effetti speciali. La squadra ha talento ma meno delle edizioni passate. Ci sono Pepe, João Moutinho, Nani, Renato Sanches, William Carvalho. Il girone è tosto, nonostante le avversarie siano tutte più che abbordabili. Tre partite, tre pareggi: 1-1 con l'Islanda, 0-0 con l'Austria, 3-3 contro l'Ungheria. Ronaldo sbaglia un rigore, ma poi si sblocca con una doppietta decisiva all'ultima giornata. Il Portogallo passa il turno da terza classificata. Appena sufficiente.

Agli ottavi affrontano la Croazia. Una partita bloccata. Segna Ricardo Quaresma nei supplementari, dopo una respinta su tiro di Ronaldo. Ai quarti, contro la Polonia, è ancora parità: 1-1 nei tempi regolamentari, poi vittoria ai rigori. In semifinale c'è il Galles di Gareth Bale, sorpresa del torneo. Il Portogallo gioca meglio, Ronaldo segna di testa e poi serve l'assist per il raddoppio di Nani. Finisce 2-0. È finale, di nuovo.

Ma si gioca a Saint-Denis, periferia di Parigi, contro la Francia padrona di casa. È uno scontro che sembra impari. Il Portogallo non ha giocato bene in tutta la manifestazione e ha sfruttato un percorso favorevole, senza troppi ostacoli di rilievo. Dall'altra parte ci sono Pogba, Griezmann, Kanté, Giroud. Deschamps si è permesso il lusso di lasciare a casa Ribery. Il Portogallo regge, ma dopo appena 25 minuti succede l'imprevisto: Ronaldo subisce un colpo al ginocchio da Payet. Prova a restare in campo per tre volte ma il dolore è forte. È costretto a uscire. È il minuto 28. La sua finale finisce lì. Resta in panchina e diventa l'allenatore aggiunto della squadra. Dispensa consigli, riprende i suoi compagni, li incoraggia, li sprona.

In campo, al suo posto, entra Ricardo Quaresma. Il Portogallo si chiude, si compatta. Rui Patrício para tutto. In panchina, Ronaldo si agita e grida, sempre di più. Poi, nei supplementari, carica Eder, che sta per entrare in attacco. È il cambio decisivo. Al 109' l'attaccante di riserva riceve palla, avanza, calcia da fuori. Rasoiata imprendibile direbbero i bravi telecronisti. Gol. Uno a zero.

I portoghesi resistono fino alla fine. Al triplice fischio, sono campioni d'Europa. È il primo trofeo internazionale della loro storia. Ronaldo torna in campo per la premiazione. Zoppica, ma sorride. Alza la coppa con la fascia da capitano. Non ha praticamente giocato la finale, ma il titolo porta anche la sua firma.

La rovesciata più bella della storia

È il 3 aprile del 2018. Quarti di finale di Champions League. Ancora Juventus-Real Madrid. Stavolta allo Stadium. Minuto 64. Cross di Carvajal da destra. Ronaldo prende il tempo, si alza in volo. Il corpo si piega all'indietro, le gambe si staccano da terra. Poi il gesto perfetto: rovesciata. L'impatto con il pallone sembra uscito da una puntata di Holly e Benji. La palla si infila all'angolino. Buffon è immobile. Barzagli allarga le braccia, come a dire: “E come avrei potuto impedirlo?”

Lo stadio prima ammutolisce. Poi si alza in piedi. Tutti i tifosi della Juve applaudono. Sempre più forte. Hanno appena visto qualcosa che non si può odiare. Zidane si passa la mano sulla testa. Buffon, al Festival di Trento, racconterà: “Dopo quella rovesciata, gli chiesi in campo quanti anni avesse. E sorridendo rispose: 33, non male vero?'”

Cristiano non esulta in modo eclatante. Allarga le braccia. Sorride. Sembra quasi in imbarazzo. È abituato a ricevere insulti, fischi e offese, non si aspetta una reazione del genere. Guarda lo stadio e i tifosi della Juventus e pensa che, forse, non sarebbe per nulla male, un giorno, ricambiare quell'attestato di stima.

 

 

Il Real in quella stagione arriva ancora in fondo. Il 26 maggio, ennesima finale di Champions League, a Kiev. Di fronte c'è il Liverpool di Klopp. Per molti è la quarta finale in cinque anni. Per Ronaldo è la quinta personale in maglia blanca. E sa che potrebbe essere l'ultima. La partita è strana. Salah esce per infortunio, Ramos lo abbranca a terra, spalla lussata e una marea di sospetti. È la finale degli errori di Karius in porta, di un'altra rovesciata, stavolta di Bale, e della tredicesima volta del Real Madrid. La terza consecutiva. Un dominio.

Cristiano non segna. Ma è comunque centrale. Stavolta, ancor di più, nelle dichiarazioni post partita. Ai microfoni di beIN Sports, spiazza tutti: "È stato bello giocare nel Real Madrid". Un verbo al passato mentre i compagni festeggiano. In pochi giorni quella frase rimbalza su tutti i giornali del mondo. Cosa vuole fare Ronaldo? A cosa mira? Vuole andare via? Dove va? Si è aperta una frattura, anche con i tifosi.

A luglio arriva l'annuncio ufficiale: Cristiano Ronaldo lascia il Real Madrid. Dopo nove stagioni, 451 gol in 438 partite, 4 Champions League, 2 titoli della Liga, 2 Coppe del Re. Ma soprattutto lascia un'eredità che nessuno potrà colmare. Destinazione? Ovviamente Torino. La Juventus lo ha voluto. E lui ha deciso di chiudere un cerchio. Quello cominciato tre mesi prima, allo Stadium, mentre sentiva gli applausi. E forse, già in quel momento, aveva intuito cosa avrebbe fatto quell'estate. 

Torino, la Juve, una nuova missione

L'ufficialità del trasferimento arriva il 10 luglio 2018. È un tam tam che dalla Mole si sparge in ogni quartiere, arrivando fino alle Vallette e alla Continassa dove sorgeva, ora demolito, il vecchio Stadio Delle Alpi. Cristiano Ronaldo è, per davvero, un giocatore della Juventus. Nessuno ci credeva davvero, nonostante le voci, sempre più insistenti. Contratto quadriennale, 100 milioni di euro il costo del cartellino. Lo accoglie un club che domina in Italia da sette anni, ma che in Europa ha ancora un conto aperto. Due finali perse in tre stagioni, e una cicatrice che non si rimargina: quella notte di Cardiff, con Ronaldo protagonista. L'ultima festa bianconera è targata 1996. In panchina Lippi, in campo Vialli, Del Piero e Ravanelli. E poi Peruzzi, Jugovic e Davids. La vittoria a Roma, ai calci di rigore, contro l'Ajax di Litmanen e dei fratelli De Boer. La maglia blu con quelle enormi stelle gialle sulle spalle. Non proprio amata da tutti i tifosi. Ronaldo era ancora a Madeira, a giocare per le strade.

Il colpo è enorme. Non solo sportivo, anche mediatico. La Serie A ritrova un fuoriclasse assoluto dopo anni di assenza. Torino si riempie di maglie con il numero 7. I social esplodono, la gente si chiede dove andrà a vivere, e chi arriverà insieme a lui. Lo Stadium è sold out, sempre.

Ronaldo parte con un piccolo ritardo: non segna nelle prime tre giornate. Poi si sblocca contro il Sassuolo. Segna una doppietta, corre verso la bandierina. Sium! Da lì, non si ferma più. A fine stagione chiuderà con 28 gol. Ma, come a Madrid, i tifosi aspettano la Champions. Vincono da troppi anni in Italia per accontentarsi. Ai quarti c'è di nuovo l'Atlético Madrid. All'andata, a Madrid, la Juve perde 2-0. Sembra finita. Ma al ritorno, Ronaldo fa tripletta: di testa, calciando un rigore, dominando. Ma in semifinale arriva l'Ajax. Giovane, imprevedibile, veloce. La Juve si ferma lì. La stagione si chiude con lo scudetto, il primo per Ronaldo in Italia.

Il secondo anno comincia con Maurizio Sarri in panchina, al posto di Max Allegri. Una Juventus diversa, che prova a giocare tenendo di più il possesso, gestendo in modo nuovo le partite. Ma l'esperimento non decolla. Ronaldo, però, continua a segnare. Chiude la stagione con 37 gol in 46 partite: il suo miglior bottino italiano. Il problema resta la Champions. La Juve si ferma presto, troppo presto. Contro il Lione, agli ottavi. Ronaldo segna anche lì, due gol al ritorno, ma non basta.

Alla Juve mancano alternative credibili quando la benzina del portoghese, ormai quasi 35enne, inizia a scarseggiare. E la società rilancia con un'altra scommessa in panchina. Arriva Pirlo, un altro che con la maglia bianconera aveva fatto la storia. Ma stavolta non regge. La Juve perde lo scudetto dopo nove anni. In Champions, l'eliminazione arriva ancora agli ottavi, ancora più cocente, stavolta contro il Porto. Ai supplementari. Cristiano è in barriera quando Sergio Oliveira segna su punizione. Il suo disappunto è evidente. E le telecamere immortalano tutto. Nell'estate 2021, dopo tre stagioni, Ronaldo saluta Torino. Un addio rapido, quasi freddo. Stavolta la missione, forse per la prima volta in carriera, non è andata a buon fine. E il tempo per rimediare non c'è. Lascia l'Italia con 101 gol in 134 partite. Ha vinto tre trofei. Ma non quello per cui era arrivato.

 

 

Il ritorno (fallimentare) a Manchester

Old Trafford. Here we are again. Ci risiamo. Ancora la Premier, ancora i Red Devils. Ma Ronaldo non è più lo stesso. Non è quello che arrivò a Manchester nel 2003, né tantomeno quello che partì nel 2009. È tornato a casa, dodici anni dopo. I tifosi inglesi, un po' come quelli italiani, si illudono che possa bastare lui a riportare la squadra ai vertici. Il 7 torna sulle sue spalle. Il marketing del club esplode. La macchina si rimette in moto.

Segna subito. Due gol al debutto contro il Newcastle. Poi va avanti come sempre: numeri incredibili e un'attenzione mediatica costante. Sui social lo seguono milioni di persone. Intanto ha costruito un impero economico, digitale, globale. Chiude la stagione con 24 reti. Ma lo United è una squadra disfunzionale. Senza capo né coda. Fragile, senza una vera guida. Solskjaer viene esonerato. Rangnick non riesce a sistemare nulla. In Champions, fuori agli ottavi. Ancora una volta quei maledetti ottavi. In Premier, sesto posto. Zero titoli. Per Ronaldo è un nuovo incubo. Ma non è come una volta. Le sconfitte restano sconfitte. Non ci sono riscatti. Non si impara più dalle eliminazioni. È il capocannoniere del club, ma è una magra consolazione.

L'estate successiva segna la frattura. Erik ten Hag arriva per rivoluzionare tutto. Vuole pressing, gioco collettivo. Non vuole prime donne. Ronaldo non è più al centro. Anzi, non rientra proprio nei piani. Fare la riserva, anche a 37 anni, non è un'opzione. A novembre 2022 rilascia un'intervista esplosiva a Piers Morgan. Accusa un po' tutti. Pochi giorni dopo, il Manchester United rescinde il contratto.

Ronaldo resta senza squadra. A poche settimane dal Mondiale in Qatar. Il ritorno, che sembrava un cerchio che si chiudeva, diventa un addio brusco. È tutto molto surreale. Cristiano sa che il suo tempo in Europa è finito. E guarda altrove. Il ritiro? Non è nei piani. Il fisico regge. La mente pure. Ha quasi 40 anni ma è uno splendido quarantenne. Gli serve solo un posto dove essere, ancora, il centro di tutto.

Il Qatar e i petroldollari dell'Arabia

Qatar 2022 doveva essere il suo ultimo Mondiale. Il più importante. L'occasione per chiudere in bellezza. Ma il copione non lo scrive il protagonista, nemmeno se è il più talentuoso di tutti. La prima fase per il Portogallo è complicata. I primi scricchiolii arrivano con la sconfitta contro la Corea del Sud, nei gironi. Poi, agli ottavi contro la Svizzera, Ronaldo resta in panchina. “Si tratta solo di una questione legata alla strategia di gioco che abbiamo preparato specificamente per questa partita”, dirà il commissario tecnico Fernando Santos. E in effetti finisce 6-1.

Succede lo stesso nei quarti di finale contro il Marocco. Ronaldo entra nel secondo tempo, ma stavolta l'epilogo è diverso. Gli africani reggono. Eliminano il Portogallo. Ronaldo lascia il campo in lacrime, come quando era bambino per le strade di Funchal, mentre il mondo lo guarda, ancora una volta, da vicino.

Pochi giorni dopo, la firma: Al-Nassr, Arabia Saudita. Un contratto fuori scala e fuori senso: oltre 200 milioni a stagione. Ma non è solo una questione di soldi. Ronaldo non cerca solo una pensione dorata. Cerca rilevanza. Spazio. Vuole restare il centro di un nuovo ecosistema calcistico. A Riad diventa un'istituzione. Segna, richiama sponsor, inaugura un nuovo mercato globale. La Saudi Pro League, fino a quel momento marginale, cambia volto. Diventa un campionato ambito. Arrivano Benzema, Mané, Kanté, Neymar, Milinkovic Savic. Ma il detonatore è lui, l'unico che poteva far saltare il tappo della bottiglia e aprire una nuova via.

Nel 2024, agli Europei, le cose vanno meglio. Ronaldo entra nella storia: è il primo calciatore a disputare sei edizioni del torneo (2004, 2008, 2012, 2016, 2020, 2024) e a segnare in cinque. Ha 39 anni, ma viene incluso dal nuovo CT Roberto Martínez. Fa il suo. Il Portogallo supera i gironi, arriva ai quarti, ma viene eliminato dalla Francia ai rigori, dopo uno 0-0 tiratissimo. Ronaldo trasforma il suo. E rilancia: se servirà, sarà pronto anche per il 2026.

 

 

Pochi giorni fa è arrivata la doppia notizia del divorzio con l'Al Nassr e poi dekl prolungamento con lo stesso club. No, non parlate di ritiro con Cristiano Ronaldo. Ai suoi 40 anni, festeggiati con una torta monumentale e una festa da copertina di tabloid, si è parlato ancora di calcio, di futuro, di erba, di campo. E di nuove sfide. Come la Nations League, vissuta da protagonista in questo giugno 2025, con due gol segnati e la coppa sollevata, ancora una volta, da capitano e guida del Portogallo.

Resta ancora un obiettivo: i 1000 gol in carriera. Ne mancano, mentre scrivo, appena una sessantina. Bazzecole, per lui. Del resto, il campione portoghese non sarà ricordato solo per quanto ha vinto. O per quanto ha segnato. Ma per quanto ha preteso da sé stesso. Per come ha sfidato il tempo. Per come, ancora oggi, si muove da professionista esemplare. “I don't follow the record, the record follow me”. Sono tanti quelli che non lo hanno amato. Che lo hanno preso in antipatia. Che lo hanno messo dietro Messi, e del resto siamo a 8 palloni d'oro a 5 per l'argentino. Ma tutti, almeno una volta, si sono sicuramente fermati a guardarlo. Ad ammirarlo, anche solo per un secondo. E ad applaudirlo per un gesto tecnico riuscito solo a quelli capaci di fare cose fuori dall'ordinario. A qualunque età.

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