AGI - Probabilmente il Piave mormorava davvero calmo e placido al passaggio dei primi fanti italiani il 24 maggio 1915, ma sicuramente l'esercito non marciava «per far contro il nemico una barriera». Il Regno d'Italia non difendeva i confini nazionali ma li oltrepassava per attaccare l'Austria-Ungheria e portare a compimento il processo risorgimentale. La Canzone del Piave del napoletano E.A. Mario (alias di Giovanni Ermete Gaeta) nel 1918 dava una versione edulcorata e fieramente patriottica su quell'ingresso in guerra: lineare e coerente dal punto di vista storico ma contorto e problematico per i percorsi attraverso i quali maturò. Dal 20 maggio 1882, per non rimanere isolata nel contesto delle potenze europee e abboccando all'amo del cancelliere tedesco Otto von Bismarck, il regno dei Savoia si era legato infatti alla Germania e soprattutto all'Austria contro la quale aveva combattuto tre guerre d'indipendenza.
L'innaturale trattato al fianco del nemico storico del Risorgimento
Il trattato della Triplice alleanza, con funzione difensiva, alla vigilia dello scoppio della Grande guerra si contrapponeva sul continente alla Triplice intesa di cui facevano parte dal 1907 Francia, Inghilterra e Russia. Ma quando Vienna, dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo, aveva inviato un ultimatum alla Serbia e poi le aveva dichiarato guerra il 3 agosto 1914, l'Italia si era avvalsa delle clausole sulla non consultazione e sulla natura non difensiva del conflitto (artt. 4 e 7) per proclamarsi neutrale. Era questa una posizione nettamente maggioritaria nell'opinione pubblica italiana, ma via via si registrava un incremento progressivo degli interventisti che propendevano più per prendere le armi contro Francesco Giuseppe che per supportarne eventualmente lo sforzo militare. In sospeso con Vienna, in quell'alleanza tattica e del tutto innaturale, c'era la questione delle terre irredente, ovvero quelle etnicamente italiane rimaste nei confini imperiali nel 1866, con Trento e Trieste. Per quanto con senso di realismo i governi italiani avessero fin allora provato sempre a smorzare ufficialmente il sostegno morale agli italiani sudditi austriaci, la diplomazia non era rimasta inerte.
Il prezzo della neutralità: le trattative con Vienna e la clausola con l'inganno
Anche la neutralità poteva avere un prezzo, perché comunque costringeva la Francia a presidiare la frontiera con l'Italia e consentiva all'Austria di dirottare lo sforzo bellico contro la Russia distogliendo truppe dal sud, ma era pur vero che quella frontiera era tutt'altro che tra due nazioni alleate: ambedue l'avevano fortificata, anche se gli imperiali avevano un indubbio vantaggio strategico in quanto le loro trincee correvano al di sopra di quelle italiane, e per di più i circoli militari di Vienna erano orientati a una guerra preventiva all'Italia per toglierla di mezzo e pararsi le spalle. A un certo punto la cancelleria di Vienna, su consiglio di Berlino, si trovò costretta a prendere in considerazione le rivendicazioni di Roma, più che altro per non dover aprire un altro fronte che avrebbe generato uno squilibrio strategico. L'assenso di massima a cessioni territoriali era però condizionata alla fine della guerra: una clausola temporale che rendeva logica una tattica dilatoria sotto una bella e ingannevole forma, perché se gli austro-tedeschi avessero perso non avrebbero avuto alcun modo di adempiere, e se avessero vinto non avrebbero invece avuto alcun motivo a premiare l'Italia per il suo mancato aiuto militare.
La diplomazia segreta, il Patto di Londra e il conto alla rovescia
Era chiaro che l'Intesa sarebbe stata più generosa a prescindere, ricevendo molti vantaggi dall'entrata in guerra dell'Italia e potendole offrire non solo quello a cui ambiva per completare il processo risorgimentale, ma anche di incremento delle colonie africane come risultante della spartizione franco-britannica di quelle tedesche, e ulteriori acquisizioni dallo smembramento dell'impero ottomano il cui destino appariva segnato. La diplomazia, per impulso del ministro degli esteri Sidney Sonnino in accordo col presidente del consiglio Antonio Salandra, si mosse segretamente mentre in Italia l'interventismo pesava ormai decisamente dalla parte dell'Intesa, come d'altronde lo stesso re Vittorio Emanuele III. Il 26 aprile 1915, all'insaputa del parlamento, veniva firmato il Patto di Londra, con l'impegno dell'Italia a entrare in guerra entro un mese.
I giorni di alleanza simultanea con tutte le nazioni in conflitto
Paradossalmente per giorni la nazione dei Savoia era alleata contemporaneamente con tutte quelle combattenti su opposti fronti. La denuncia della fine delle trattative con Vienna e dell'alleanza con gli imperi resa pubblica l'8 maggio 1915, e la dichiarazione di guerra del 23 alla sola Austria-Ungheria (quella alla Germania arriverà solo il 27 agosto 1916), sgomberavano il campo da trenta anni di ipocrisie ma non faceva luce su come si era arrivati a quel punto. Francesco Giuseppe nel proclama ai suoi sudditi userà parole taglienti: «Il Re d'Italia mi ha dichiarato la guerra. Un tradimento di cui la storia non conosce l'uguale». Quella macchia peserà non poco sulla reputazione dei Savoia e degli italiani, per il rovesciamento improvviso delle alleanze. Ma allora nessuno sapeva del Patto di Londra, i cui contenuti verranno rivelati in manera eclatante dalla Russia dopo la rivoluzione del 1917, come esempio degli intrighi della diplomazia segreta. Quando quella cambiale sarà portata all'incasso, con la vittoria sugli Imperi centrali nel novembre del 1918 costata la vita di 650.000 soldati italiani, gli impegni non saranno però rispettati. Nel 1915 non era stata prevista la dissoluzione dell'impero austro-ungarico, pur insufflando le nazionalità di quel mosaico in particolare polacchi, boemi e slovacchi, e con gli slavi del sud che adesso si stavano costituendo in un'unità territoriale e politica di cui tenere conto.
L'inutile “beau geste” alla conferenza di pace e il mito della vittoria mutilata
La Francia premeva per impedire che l'Adriatico, con la realizzazione delle clausole più stringenti e con quelle lasciate volutamente indefinite, potesse diventare un lago italiano, la Russia era completamente fuorigioco e l'Inghilterra non smaniava certo per rafforzare l'Italia nel Mediterraneo. Ma, soprattutto, il presidente americano Woodrow Wilson, autore dei “14 punti per una pace giusta” che facevano leva sul principio dell'autodeterminazione dei popoli, avversava il progetto italiano di espansione lungo la costa dalmata, e si riteneva totalmente svincolato dal Patto di Londra perché gli Usa non ne sapevano nulla e neppure l'avevano sottoscritto. A Parigi, dove con la Conferenza di pace si ridisegnava la cartina europea (e non solo), di fronte all'irrigidimento degli alleati la diplomazia italiana scelse l'infausta via del beau geste: abbandonando i lavori come segno di plateale protesta Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino lasciarono campo libero a Francia e Inghilterra. Quando la delegazione italiana tornò precipitosamente al tavolo era tutto deciso. In Italia Gabriele d'Annunzio, che nel maggio 1915 aveva infiammato le piazze e i cuori con i suoi discorsi interventisti, coniò il mito della vittoria mutilata di cui si impossessò Benito Mussolini già al momento della fondazione dei fasci di combattimento.