Jobs act e referendum, le due anime del Pd tornano al confronto

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AGI - La legislatura è al giro di boa, non ci sono appuntamenti elettorali imminenti, la situazione si presta ad aprire una fase nuova per il Partito Democratico. È questa consapevolezza, più che velleità di scalate al Nazareno, a muovere le tante anime dentro e attorno al Pd che nelle ultime settimane hanno inviato segni inequivocabili alla segretaria Elly Schlein. L'ultimo in ordine di tempo è quello sul referendum abrogativo del Jobs Act, che vede sul piede di guerra quei riformisti e cattolici protagonisti del doppio appuntamento del 18 gennaio, a Milano e Orvieto.

Graziano Delrio, promotore del convegno di Milano - che ha tenuto a battesimo l'associazione Comunità Democratica e il debutto politico di Ernesto Maria Ruffini - si è detto contrario al referendum ricordando che lui era ministro del governo Renzi quando il Jobs Act fu varato. Una contrarietà a "titolo personale", sottolinea Delrio: "Noi abbiamo approvato il Jobs Act per il superamento di diverse carenze nella difesa dei diritti dei lavoratori: le dimissioni in bianco, i cocopro, la precarietà, ed era previsto già da allora anche il salario minimo, battaglia del Pd. Non approvo il referendum, troveremo una sintesi tra tutti, ma non mi pare che il complesso del Jobs Act meriti una battaglia politica di cancellazione".

Posizione, quella di Delrio, in contrasto con la linea della segretaria che, a chi l'ha avvicinata per sottoporle il tema dopo la riunione della segreteria di martedì ha risposto: "Io i quesiti li ho firmati e senz'altro non faremo mancare il nostro contributo". Una linea condivisa dalla maggioranza del partito. Voterà contro il Jobs Act anche Marco Sarracino, deputato e membro della segreteria dem, convinto che il referendum rappresenti l'occasione per "sanare le ferite" che la stagione Renzi ha aperto nel rapporto fra Pd e mondo del lavoro, della scuola e del sindacato.

"Oggi il Pd sta progressivamente ritrovando credibilità con chi non solo aveva smesso di credere in noi ma ci identificava come la causa del problema. I referendum sono una opportunità per sanare definitivamente quelle ferite".

Ed è lo stesso Sarracino a ricordare che tutti candidati alla segreteria Pd allo scorso congresso (Elly Schlein, Stefano Bonaccini, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo) si erano espressi a favore di un superamento del Jobs Act, alla luce delle sentenze della Consulta che ne hanno smontato l'impianto. E contrario al Jobs Act è Artuiro Scotto che ricorda: "Quella legge non la votai, ho firmato i quesiti referendari e voterò per cancellarlo". Una partita che, per il Pd e la sua leader, si è fatta in salita con la bocciatura arrivata dalla Consulta sui quesiti riguardanti l'Autonomia. Mancherà, quindi, quell'effetto 'traino' sul quale i promotori e sostenitori del referendum sul lavoro contavano per raggiungere il quorum. 

Il confronto sul Jobs Act non esaurisce, tuttavia, le questioni sul tavolo della segretaria. Anche all'interno della sinistra dem c'è chi, per ragioni in qualche misura simili a quelle dei colleghi riformisti e cattolici, chiede di aprire una discussione dentro il partito. Gianni Cuperlo, ad esempio, è colpito "dal fatto, e non è certo responsabilità della segretaria, che negli organismi dirigenti di un partito come il nostro, dopo delle relazioni che fa Elly Schlein, non ci sia un dibattito nel quale i principali esponenti delle diverse sensibilità prendono la parola. Mentre poi, nei giorni successivi, ci sono ampie interviste sui giornali o appuntamenti che le singole componenti convocano. Io penso che questo sia un problema perché resto affezionato all'idea che un partito come il nostro sia prima di tutto una comunità dove gli organismi dirigenti hanno una funzione".

Una idea che negli ultimi tempi è stata un po' sacrificata, spiega una fonte parlamentare dem, per favorire l'unità in vista degli appuntamenti elettorali e restituire, anche agli elettori, l'immagine di un partito compatto. Ora, come osserva Matteo Orfini, è il momento buono per riprendere a praticare il confronto dentro gli organi del Pd: "Abbiamo votato in rapida sequenza per le amministrative, per le europee, per le regionali. La legge di Bilancio è alle spalle, così come le elezioni americane e per le politiche mancano due anni".

 

Il prossimo appuntamento sarà la direzione, la cui convocazione è attesa a breve, e che si troverà a discutere i cambiamenti sopravvenuti negli ultimi mesi, comprese le elezioni americane e l'insediamento di Donald Trump. Se non ora, quando? È anche per questo, dice Orfini, che si registra questa vivacità fra le aree culturali dem. Ma non solo. Particolarmente attivo, da un mese a questa parte, è Romano Prodi. Il padre nobile del Pd e del centrosinistra si è soffermato a più riprese sul partito guidato da Schlein: "Siamo in un passaggio, occorre prepararsi a un eventuale riacquisto del governo e la struttura e l'organizzazione attuale non bastano".

Una indicazione di lavoro che Prodi torna a offrire alla segretaria, al partito e a tutto il centrosinistra spiegando che quando "si apre il dibattito sul nuovo non si pensa più a come stanno le cose oggi, ma se tra due anni riusciamo a fare una coalizione che possa arrivare al governo". La questione si sposa in qualche modo con quella di Andrea Orlando. L'ex ministro è tra gli esponenti della sinistra dem che prende sul serio la richiesta dei centristi di aprire una discussione sulla cultura politica del Pd. La questione, per Orlando, non è cultura laica e socialista contro cultura cattolica, quanto l'approccio al mercato e al modello di sviluppo. "Dopo la sconfitta del 2022, il tema era la sopravvivenza del Pd quindi c'è stato un po' di sacrificio della dialettica a favore della ricerca dell'unità. Ma oggi la discussione è giusto farla". 

 

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