AGI - Correva dietro alle donne ma era inseguito dai creditori, e non era Gabriele d’Annunzio, al quale lo legava un’amicizia sincera e complice nonostante fosse agli antipodi dello stile. È stato il poeta italiano di più alta statura, perché sfiorava i due metri di altezza, eppure non verseggiava neppure in italiano. Carlo Alberto Salustri si anagrammò il cognome e con la firma Trilussa andò ben oltre la capacità riconosciutagli dai contemporanei di regalare un sorriso con una metafora fulminante, un paradosso, una sottolineatura comica, un epigramma.
L’anticonformista che sfuggiva alla censura del regime e si definì “non fascista”
Nato a Roma il 26 ottobre 1871, Trilussa fece dell’ironia un’arma affilata per un originale modo di essere “contro” o comunque sempre fuori dal coro. Se ne andò il 21 dicembre 1950, settantacinque anni fa, eppure le sue rime sono rimaste proverbiali e sempre ripubblicate. Non cercò il moralismo all’Esopo ma rivelò sotto lo smalto brillante sia i caratteri dell’uomo sia le sue debolezze e le sue ipocrisie, passando con disinvoltura da miseria, nobiltà e borghesia, di cui sapeva cogliere quegli aspetti che ai più sfuggivano.
Troppo facile e troppo popolare per essere considerato dall’accademia e dalla critica snob, fu sin troppo abile a sfuggire persino alla censura fascista. Non si iscrisse mai al partito ma neppure rivendicò di essere stato antifascista quando era comodo dichiararsi tale nel secondo dopoguerra. Persino con sé stesso fu ironico, tanto da definirsi “non fascista”, e questo basterebbe a far riflettere sulle stucchevoli polemiche della nostra contemporaneità.
Addio alla scuola per non fare il contabile ed esordio come poeta a sedici anni
Figlio di un cameriere e di una sarta di origini bolognesi, orfano di padre in giovane età, dimostrò avversione per la disciplina degli studi e alla fine decise di farne a meno nonostante gli fossero riconosciute vive doti intellettuali. Giurò che mai e poi mai avrebbe fatto il contabile ed esordì come poeta dialettale a 16 anni riuscendo a farsi pubblicare sulla rivista “Rugantino” un sonetto di ispirazione belliana non privo di originalità, che non sfuggì al direttore Giggi Zanazzo. Non si fermerà più, con scritti satirici, raccolte di poesie, favole, tutti firmati Trilussa, poeta che viveva di poesia tra alti e bassi, popolare come pochi.
L’amore per le donne e il dono dell’irrisione senza moralismi
Barcamenandosi dal punto di vista delle entrate di questa attività, non si faceva scrupoli di declamare i suoi versi pungenti nei circoli letterari, nei salotti e pure nelle osterie e nei café chantant, così tanto di moda alla fine del secolo, che erano in sintonia col suo carattere e il suo modo di essere. Si regalò anche un’esperienza in Germania assieme al trasformista Leopoldo Fregoli, visse una disillusione d’amore e una serie di avventure che non lo portarono neppure alle soglie dell’altare.
Per oltre mezzo secolo non ci fu nulla che non attirasse la sua attenzione col filtro dell’intelligenza che emerge dai suoi scritti in rima e in prosa, tra disincanto e motteggiamento della società, con i vizi, le furbizie e le debolezze connaturati nell’uomo. Brillante e malinconico, illuminante e crepuscolare, satirico e disilluso, acuto e disimpegnato, creò senza mettersi paletti stilistici o di pensiero. Raccontando la vita in chiaroscuro, come un paesaggio notturno illuminato da lampi imprevedibili.
L’ape della felicità, il pollo della statistica e “Er presepio”
Per definire la felicità gli bastarono una piccola ape e appena cinque versi: “C’è un’ape che se posa / su un bottone de rosa: / lo succhia e se ne va... / Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa”. Volle proprio questo come epitaffio. Ricorrendo all’immagine di una colomba mise in evidenza che anche coloro che sanno volare alto nella vita possono perdere la giusta rotta. La saggia tartaruga che fa il passo più lungo della zampa e rotola giù da una scarpata rimanendo rovesciata, dice che almeno può vedere le stelle. Il pollo di Trilussa spiega meglio di un tomo di economia come la statistica possa essere ingannevole: se uno ne mangia due l’altro nessuno, ne risulta uno a testa. E il suo lustrascarpe è davvero un filosofo della quotidianità e della pratica, che oscilla dall’arte di arrangiarsi ai sogni di un futuro migliore che non arriverà mai.
“Er Presepio” dovrebbe essere imparato a memoria nelle scuole durante le feste natalizie: un conto è allestire una rappresentazione sfarzosa della nascita del Redentore, un altro è applicare tutti i princìpi cristiani di amore, solidarietà, vicinanza agli altri, perché il vero presepe vive nel cuore. Le maschere di Trilussa sono più ironiche e più sardoniche di quelle di Pirandello, ma non per questo sono meno significative e meno profonde come strumento di lettura e interpretazione della realtà e delle sue contraddizioni.
“Non sono uno scettico. Sono uno che crede con difficoltà”
Usando il romanesco piegato al suo stile e la lezione della romanità classica, consegnò a poesia e favole le sue pillole di saggezza che sono entrate nel vissuto come nella letteratura, grazie a un vernacolo armonizzato alla lingua di Dante. Ne ebbe per tutti e non risparmiò nessuno, a partire da sé stesso. “Un giorno l’Uomo del destino / trovandosi invitato ad un festino / gonfiò il petto meglio di un tacchino / e salutò il Poeta tra i presenti: / “Al più grande di tutti io mi inchino”. / “È pur vero” rispose quello sull’attenti / “non è da tutti misurar due metri”: l’uomo da due metri era lui, quello del destino Mussolini.
Il duce confiderà a Emil Ludwig, che lo mise per iscritto: “Ho permesso le poesie di Trilussa, perché sono spiritose”. I partiti nel secondo dopoguerra si impadroniranno dei suoi versi che colpivano nel segno come slogan. Nel 1947 di qua e di là lo volevano sindaco di Roma, e ovviamente non si fece ingabbiare. La politica non l’interessava e nel suo bestiario aveva lasciato rime esaustive: “Oggi ch’er prete è mezzo libberale / e er libberale è mezzo gesuita / se resti mezza bianca e mezza nera / vedrai che t’assicuri la carriera"; e pure “No, no: - rispose er Gatto senza core - / io non divido gnente co’ nessuno: / Fo er socialista quanno sto a diggiuno / ma quanno magno so’ conservatore!". Quanto al suo rapporto con la fede, pur essendo nipote di un prete diceva: “Non sono uno scettico. Soltanto, sono uno che crede con difficoltà”.
“M’hanno fatto senatore… a morte”
Era popolare perché si rivolgeva veracemente e senza filtri al popolo, alla gente comune, che lo comprendeva, lo amava, conosceva e declamava le sue poesie. Non possedeva il volo aulico di d’Annunzio, col quale amava passeggiare per Roma spesso in dolce compagnia, ma quell’immediatezza che la critica, salvo poche eccezioni, gli rimproverava nonostante la precisione maniacale dei suoi versi. Il Vate era amorale, lui era umorale, ambedue amavano le donne e la poesia.
La dimensione piccoloborghese gli appartiene e se ne vanta, persino dei difetti. All’editore Mondadori manda telegrammi e disegnini in cui è inseguito dai creditori, che valgono più di mille parole. Quando a sorpresa il I dicembre 1950 il presidente Luigi Einaudi lo nomina senatore a vita della Repubblica il suo primo commento è “m’hanno fatto senatore…a morte” e poi con la fedele governante Rosa esulta: “Semo ricchi”. Esattamente venti giorni dopo Carlo Alberto Camillo Mariano Sallustri moriva, e Trilussa entrava nella leggenda. Anzi, c’era già.








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