I Fasci siciliani nel libro "L'isola ribelle": la rivolta contadina dimenticata

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AGI - "Il movimento dei fasci, oltre a essere più esteso, è anche il primo che possa essere definito come un movimento organizzato, con dei capi, un'ideologia moderna e un programma; è questo, in effetti, il primo movimento contadino che si distingua da una semplice reazione spontanea dei contadini": il grande storico dell'Età moderna e contemporanea Eric Hobsbawm descriveva così, inserendolo nel volume I ribelli (Einaudi 1966), ciò che da quel momento in poi e fino a oggi la saggistica e soprattutto la letteratura hanno quasi ignorato, tranne alcune eccezioni: la straordinaria mobilitazione e auto-organizzazione dei contadini in Sicilia (1891-94), un attimo prima dell'ingresso dell'Europa nel Ventesimo secolo.

Il romanzo e il giornalista dimenticato

È in questo vuoto che si inserisce, rilanciando la figura di un intrepido giornalista, L'isola ribelle di Serafina Ignoto (secondo volume con editore Navarra, reperibile in questi giorni anche a Marina di Libri a Palermo), che tra i Fasci si infila seguendo e reinventando nel romanzo le tracce, le emozioni e le parole di Andrea Pavan, giornalista veneto dietro cui si staglia il profilo reale di Adolfo Rossi, reporter nato e cresciuto nella provincia di Rovigo, e poi formatosi a Roma e nelle missioni da inviato in Africa, Stati Uniti e Sud America, dove concluse da diplomatico una vita piena e degna di essere vissuta.

Dalla povertà del Polesine alla Sicilia in rivolta

È l'indignazione contro la povertà del Polesine a spingere Pavan/Rossi in Sicilia, dove il cronista ebbe modo di annotare nei suoi taccuini in presa diretta gli avvenimenti che nell'isola si svolgevano.

"La boje, e del boto la va de fora", pensai nel mio dialetto veneto. L'Adige, rompendo gli argini, aveva messo in ginocchio tutta l'agricoltura del Polesine. I braccianti, da parte loro, riunitisi in associazioni per darsi forza negoziale, avevano cercato invano una mediazione con i padroni. Le agitazioni e gli scioperi che accompagnarono i mesi seguenti sfociarono nella rivolta de La Boje, repressa ferocemente dall'esercito. Due anni dopo l'alluvione del Polesine, in questa terra ricoperta di fango e di fame, la popolazione non trovò di meglio che prendere la via dell'emigrazione, in gran parte verso l'America meridionale", riflette Pavan passeggiando lungo il Tevere prima di accettare dal direttore de La Tribuna l'incarico di un reportage in Sicilia: "La mia esperienza giornalistica sentiva puzza di ingiustizia".

L'isola tradita e i leader dei Fasci

E di ingiustizia ne troverà a iosa, in un'Isola "tradita" dall'unificazione, che aveva lasciato i siciliani assetati di giustizia sociale. Approdato in una Palermo in cui si radicavano molti dei mali attuali – la mafia delle clientele e quella degli omicidi, raccontate nel romanzo per aneddoti gustosi di episodi realmente avvenuti – Pavan si addentra nella vicenda dei Fasci con carta, penna e a dorso di mulo si avventura nell'isola. Incontra prefetti, soldati e, soprattutto, gli esponenti di quel movimento: Garibaldi Bosco, Verro, Barbato, De Felice Giuffrida.

Il John Reed dei Fasci siciliani

Intrecciando le cronache sui propri taccuini con il racconto che nelle lettere scrive all'amica Jessie White (realmente esistita), il Pavan di Serafina Ignoto è il John Reed dei Fasci dei lavoratori siciliani. Come il giornalista che raccontò "dal vivo" la Rivoluzione d'Ottobre nei Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Pavan/Rossi coglie in presa diretta quanto accade sotto i suoi occhi: le discussioni nelle sezioni, l'organizzazione della piazza, lo spionaggio e il controspionaggio tra le parti, le cariche dei soldati, i morti, i soccorsi ai feriti.

E il braccio di ferro dei braccianti con lo Stato da un lato e con il padrone dei campi dall'altro per aver quanto bastava per sopravvivere:

"Dopo che l'operazione fu terminata, a un contadino fu consegnato solo un pugno di farina. Tutto il resto era stato preso dal padrone. L'uomo si guardò le mani, poi volse lo sguardo verso la moglie e i cinque figli e tornò a guardarsi le mani con aria afflitta. Dopo un anno di duro lavoro, di fatica e sacrifici tutto quello che possedeva non bastava a impastare un solo pane. Non disse una parola, rimase come di sasso. Aveva la faccia inebetita, mentre dagli occhi gli scendevano grosse lacrime a bagnargli il volto. Quest'immagine io non la dimenticherò per tutta la mia vita".

Il cuore del giornalismo tra i braccianti

Corleone, Piana degli Albanesi, Castelvetrano, Bisacquino, Prizzi, Campobello di Licata, Ravanusa, Caltanissetta, Catania: lì dove Pavan si presenta con il taccuino, scatta il cuore del giornalismo, ovvero la voglia di raccontare, sia di chi riporta quanto accade sia di chi affida rabbia e speranze a uno straordinario reporter che in America aveva appreso il mestiere.

"Non appena entrammo nella sala il vivace parlottio si arrestò di colpo e mi trovai con decine di occhi addosso. Fu Masi che mi tolse d'impaccio, raccontando loro chi fossi e la ragione della mia visita. La loro curiosità divenne presto entusiasmo e fecero poi a gara per narrare le loro storie, pregandomi di far sapere ovunque come essi, qui, pur patendo fame e miseria, non s'erano arresi ai soprusi e seguitavano a lottare per se stessi e per tutti i proletari dell'Italia", racconta Pavan, che come John Reed di quella rabbia e di quelle speranze è partecipe.

Donne, miniere e ingiustizia sociale

E con esse si schiera: "Avevo il cuore scuro di malinconia, per quei racconti. Così mi lasciai trascinare dagli altri. Partecipai al loro corteo, cantai insieme a loro l'Inno dei Lavoratori, ho riso insieme a loro, che mi prendevano in giro per la mia parlata. Mangiai pane scarno e zuppa di erbe selvatiche. Bevvi qualche bicchiere di vino rosso. Rosso, forte, sincero e audace come quella gente".

Tra loro, le donne erano l'anima del movimento, come a Milocca, dove "in cinquecento con una rabbia e una determinazione impensabili assaltarono la prigione, sfondarono la porta e liberarono gli arrestati", i mariti, arrestati dalla forza pubblica perché avevano chiesto pane per i propri figli.

Carusi, solfare e il tradimento finale

Pagine forti, avventurose, quelle de L'isola ribelle, e angosciose come un inferno dantesco: è nelle viscere della terra che Pavan si infila, tra i carusi delle miniere, per risalirne sconvolto. Aveva visto i "sepolti vivi" nelle solfare, bambini di cinque, sette, dodici e tredici anni nudi, affamati, venduti dai genitori, privi dell'amore e anche della speranza, alla mercé degli abusi dell'uomo e della natura, con "la testa bassa e il collo storto, gli occhi che paiono schizzar fuori dalle orbite e spalle diseguali, mentre i muscoli e le ossa sono così malfermi che sembrano doversi spezzar fra un istante".

A loro si dedicava con umanità e sapienza un "giusto": Alfonso Giordano, amico di Pasteur, pioniere della medicina del lavoro. A distanza di secoli, la Sicilia e l'Italia sembrano aver rimosso dalla memoria collettiva che nell'Europa moderna è esistita la schiavitù.

Pavan lo racconta, mentre il suo viaggio si avvicina alla fine, un attimo prima che la repressione si abbatta sui Fasci. La decide Francesco Crispi, siciliano e "camicia rossa": si chiude così il cerchio del tradimento, e l'Isola che era stata ribelle torna ad aspettare un nuovo Euno, che "si sollevò contro la tirannia di Roma, depredando e uccidendo la stessa razza padrona che oggi tiranneggia questi nuovi schiavi".

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