I dieci anni del presidente Sergio Mattarella al Quirinale

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AGI - Dieci anni fa, il 31 gennaio 2015, Sergio Mattarella veniva eletto una prima volta Presidente della Repubblica. Avrebbe replicato, con maggior consenso e con maggiore stella, sette anni dopo. Non sono più tempi di facili addii, se anche il suo predecessore Giorgio Napolitano aveva avuto il plauso della riconferma.

 

Perché al Colle ci vuole qualcuno che unisca e non divida, tenga insieme e non spacchi i delicati equilibri su cui si regge una democrazia. Lo dice la Costituzione stessa attribuendo al Capo dello Stato, prima di ogni altra cosa, il compito di rappresentare l'unità nazionale. Mestiere non facile in ogni tempo e in ogni luogo, figuriamoci quando le democrazie iniziano ad assumere - il problema le attraversa tutte - l'aspetto di assemblee di condominio, oppure di affastellate adunate di rappresentanti tribali se non, per dirla più aulicamente con Serse, piazze in cui uomini che si dicono liberi si ingannano gli uni gli altri a forza di discorsi forbiti. Ma Serse aveva torto ed Erodoto ne gongolava: i sistemi democratici sono più resistenti persino del Moplen di una volta.

Il polipropilene isotattico tiene la botta più dell'acciaio di ogni autocrazia, e questo perché si basa su una formula, un insieme di formule, un sistema di formule che permettono alla materia di trasformarsi eppur restare sempre quella. Sono le norme, le regole.

 

E delle regole Sergio Mattarella, in questi due lustri, è stato garante. Lo disse per l'appunto dieci anni fa, appena giurato da Presidente: io sono l'arbitro, i giocatori hanno il dovere di seguirle e, così, di aiutarmi nel mio compito. Non un Quirinale interventista, il suo, ma sollecitatore al buon gioco. È stato così che la Repubblica è passata dalla sua seconda fase alla terza senza scossoni.

 

Non è stato facile: al momento dell'elezione si andava consumando il modello politico emerso dopo Tangentopoli e si trattava di evitare che il nuovo in avanzamento facesse saltare i fondamentali. Convinto com'era che il cambiamento non vada ostacolato, ma accompagnato e mantenuto nell'alveo della costituzionalità, Mattarella ha tenuto in equilibrio il sistema pur avendo di fronte formazioni nate dichiaratamente per aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, o accasate presso la grande famiglia degli euroscettici sovranisti.

La Costituzione, insomma, come cassetta degli attrezzi per far andare il motore del Paese: regolando il minimo, magari alzandolo un po', e rallentando alle curve più dure. La mutazione, in questi dieci anni, è stata radicale. Per dirla con le classifiche delle prime volte, massima espressione del linguaggio in un'epoca di social, mai era successo prima che nella stanza dei bottoni a dirigere fosse una donna e che al governo vi fosse una coalizione apertamente schierata più a destra che non al centro.

 

La trasformazione è avvenuta nel pieno rispetto delle regole, in un clima dove il legittimo dibattito politico non è mai degenerato. Ugualmente è stata profonda la metamorfosi di quelle forze politiche nate dichiaratamente, o dichiaratamente schieratesi, contro il processo di integrazione europea. In un caso come nell'altro il Quirinale, più che intervenendo, ha accompagnato rispettosamente, il processo. Facendo riflettere, portando a maturazione sviluppi che era possibile al massimo intravedere in nuce.

 

Non che non si sia ricorsi talvolta anche ad un linguaggio chiaro. Lo si è, semmai, riservato a poche e rare occasioni in cui l'interlocutore mostrava durezza d'orecchio, o una dose eccessiva di protervia. Ma in questi ultimi casi poco è filtrato al di fuori delle mura secolari che sorgono sul Colle. Tra tutte una la ricordiamo: fu educata, sussurrata ma pubblica. Il che ci solleva da responsabilità interpretative.

Fu quando l'allora premier britannico Boris Johnson, massimo artefice della Brexit tra i Tory del suo Paese, si mise a motteggiare alludendo - erano i tempi del covid più duro - sulla pusillanimità italiana che ci portava a rinunciare alla libertà per il piatto di lenticchie della salute.

 

"Siamo liberi e ci piace la serietà" gli replicò il Primo Italiano, e l'allusione non ha bisogno di note esplicative. Curati, Britannia. Perché Mattarella è così: sbaglia chi ne mette in evidenza il silenzio. È che ha poco bisogno di parlare. Parla spesso con gli occhi. Pudicamente nascosti sotto un paio di occhiali vagamente demodè, gli occhi di Sergio Mattarella sono - come per tutti, ma mai come nel suo caso - lo specchio dell'anima. Chi può, provi ad osservarli: chiari e taglienti, laddove uno se li aspetterebbe francescanamente remissivi.

Essendo egli siciliano, inevitabile pensare a sangue normanno ma, essendo egli siciliano, inevitabile cogliere nell'espressione una nota tutta rivolta al Mediterraneo e alle sue finezze. Un vero svevo della corte federiciana, insomma. A lui però poco si adatta un'espressione usata per i suoi predecessori, quella di Re della Repubblica. Non è questione di minimalismo vagamente deprecatorio: è che il metodo monarchico per nulla gli si addice, preferendo egli per primo altre forme di gestione e interpretazione del ruolo. In fondo è anche per questo che i suoi indici di gradimento sono stabilmente sull'alto: più che sanzionare, riprende; più che imporre, convince. È impossibile litigare con chi ti rivolge la parola parlando decibel e decibel sotto il limite di tollerabilità.

 

La miglior rivincita contro la politica dell'urlo. E se viene messo sotto la pioggia, come a Parigi per le Olimpiadi, si scrolla l'acqua dalla spalla e fa finta di nulla. Pero' poi le sue soddisfazioni se le cava, e proprio a Parigi lo si è visto. O anche a Londra, alla finale dell'Europeo.

 

Perché l'uomo è anche discreto appassionato di sport, altra cosa che lo avvicina al grande pubblico. A persona così riservata dà fastidio essere avvicinata al Guinness dei Primati, quindi non gli ricorderemo che di record ne ha stabilito uno: nessuno, dagli albori della Repubblica, è riuscito a restare cosi' a lungo al Quirinale. Dieci anni tondi tondi. Per trovare chi vi ha risieduto di più tocca andare nei registri papali o negli annali dei Savoia. Ma si tratta di altre classifiche, altri gironi. Che appartengono, semmai, ai Serse.

 

 

 

 

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