Dieci anni di sfide e successi nell'editoria italiana

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AGI - Il momento è delicato. Titolando così una sua raccolta di qualche anno fa, Niccolò Ammaniti faceva il verso agli imbarazzati rifiuti degli editori a fronte delle sue proposte di pubblicare racconti. Intimorito dalla crisi di vendite del genere breve, nonostante la nostra capacità di attenzione s'accorci e nella scrittura quotidiana domini l'acronimo, il mercato italiano ha infatti deciso da tempo che il pubblico acquista ormai solo romanzi. Ma intanto che fine ha fatto la nostra nobile e antica tradizione nella novella, forma d'espressione che per di più rappresenta la palestra di qualsiasi scrittore in erba? Per avere risposta abbiamo contattato uno dei rarissimi esemplari indisciplinati della specie degli editori, che in totale controtendenza ha deciso di pubblicare solo short story: Racconti Edizioni. Ecco cosa ha detto all'AGI Emanuele Giammarco, l'uomo che l'ha fondata e dirige dal 2015 insieme al socio Stefano Friani. 
Il 2025 segna il decimo compleanno della casa editrice: com'è nata e cos'è diventata oggi Racconti edizioni?   
Per l'anagrafe aziendale il decennio scatterebbe a novembre, ma io tenderei a mentire sull'età iniziando a contare dal maggio del 2016, quando abbiamo pubblicato i primi libri. Racconti è nata dalla voglia di due laureati di mettersi in gioco e da un'idea che nelle nostre intenzioni avrebbe dovuto coniugare una ragione d'essere economica e culturale - uno spazio lasciato libero e incustodito - con una passione comune. In dieci anni è successo di tutto, tra cui l'avvento dell'intelligenza artificiale e una pandemia globale, non pronosticabili all'epoca - almeno per le nostre limitate facoltà mentali. Tra le altre cose ci siamo scontrati con un mercato il cui funzionamento viene dato un po' per scontato (in modo ideologico, direbbe qualcuno) e rimane opaco anche a tantissimi addetti ai lavori. Per dirla con Dalla, la novità è che ci stiamo preparando. Dopo aver pubblicato più di 60 titoli, a mio parere sottovalutati, quest'anno abbiamo intrapreso una strada diversa, siamo usciti dal circuito Messaggerie e stiamo cercando di rimodulare il lavoro in modo che sia più gestibile, umano, ma non per questo meno “efficiente”. Una parte di quello che facciamo rimarrà quasi identica, puntando nel breve sugli autori e le autrici italiane. Un'altra invece aprirà nuovi orizzonti, pur rimanendo ancorati al nostro passato.  
Perché questi cambiamenti? 
Al momento – ed è la prima volta che accade in dieci anni – sto lavorando unicamente a testi scritti in italiano. I motivi sono tanti. Sono più difficili da promuovere, specie se si parla di esordi, ma banalmente costano anche meno, e si tratta di un lavoro che, se portato avanti con pazienza e cura, è prezioso di per sé. Credo che il tema del tempo, di lavoro e lettura, sia centrale. Indipendente o meno, l'editoria di oggi deve adeguarsi a un'idea consumistica e bulimica della lettura. È possibile ribaltarla o aggirarla? Non lo so. Ma se riuscissi a sincopare il ritmo imposto dalla distribuzione, a scombinarlo, mi riterrei contento non soltanto per me, ma anche per il destino dei titoli che pubblichiamo. I libri hanno bisogno di essere letti, digeriti, capiti, discussi. Più sono belli e più tempo reclamano. Non riesco a concepire la cultura semplicemente come un'appendice del presente. Bisogna andare in verticale. 
I racconti romani di Moravia, le novelle di Pirandello e Verga: a che punto è la nostra grande tradizione della forma breve, versa davvero in tale crisi che il racconto in Italia non può in alcun modo trovare lettori? 
In generale la lettura versa in una crisi enorme. Sulla forma breve, in particolare, mi trovo saltuariamente a constatare un pregiudizio che dopo dieci anni trovo davvero sconfortante e che, in verità, fuoriesce da qualsiasi logica. Sembra quasi prosperare in modo del tutto aproblematico: basterebbe fare i nomi che hai fatto, aggiungerne altri, o dare una scorsa ai nostri titoli in catalogo per capire che precludersi la forma breve come molti mi dicono di fare - a prescindere - non porta nessun vantaggio. La frase ‘non mi piacciono i racconti' alle mie orecchie suona un po' come ‘non mi piace la fotografia'. Come se le persone chiudessero gli occhi quando se ne trovano davanti una. Ma la verità, purtroppo, è che il paese reale mi dà spesso questo riscontro. Manca secondo me una vera cultura del racconto, la capacità di sapere leggere – nel senso di intendere, cogliere, interpretare – il testo di una raccolta nel suo insieme e nella sua specificità. Il racconto è ben lontano dall'essere qualcosa di banale e pret-à-manger. La forma breve è soltanto un allargamento della prospettiva sulla forma in generale; obbliga chi scrive, e di riflesso chi legge, a porsi il problema della chiusura, della consequenzialità e della coerenza interna di un'opera letteraria. Ho l'impressione che questa mancanza di cultura del racconto sia molto legata alla mancanza di cultura della lettura in generale. All'inizio della nostra avventura collegavamo il racconto alla contemporaneità strizzando involontariamente l'occhio al consumo. È una cosa che andava spiegata meglio. Me la rimangio. C'è tanto di contemporaneo nel racconto, ma è necessario un passaggio in più per capire in che senso. 
Chi svolge il lavoro di scouting letterario di base oggi, nel nostro Paese? 
Agenzie, riviste, qualche casa editrice. In tanti, in realtà. Il problema non sta nell'offerta, ma nella domanda – che a sua volta, ovviamente, finisce per deformare l'offerta. Vorrei farti vedere la mia casella dedicata ai manoscritti. È incredibile quanta gente mi mandi le sue cose, e lampante che questa voglia di farsi leggere vada del tutto controcorrente rispetto all'esiguità della risposta da parte dei lettori. Quando si dice scouting penso all'esploratore di ‘Age of Empires' che deve viaggiare al buio per scoprire la mappa. Qui i manoscritti ti arrivano direttamente sul Pc, a ripetizione. Il punto decisivo, quindi, è il lavoro che si può o non si può fare sul testo. Riuscire a costruire una comunità di lettori che sappia goderne. Un ritmo e un lavoro totalmente diversi. Oppure no, pubblichiamo tutto e vendiamo poco. Io però, scusate, preferisco farmi da parte. 
Ho letto in anteprima ‘Selenide' di Marta Cristofanini, che pubblicherete a breve, restando estremamente colpito: quali sono le caratteristiche di questa autrice e come l'avete scoperta? 
Marta è un esempio perfetto di ciò che ho detto finora. È stata pubblicata da Altri Animali – una rivista attualmente in stand-by perché chi ci lavorava aveva letteralmente bisogno di prendere fiato – grazie a Roberto Galofaro. La distanza fra quel racconto e ‘Selenide' però è abissale, e  non perché non si capisse già allora che Marta fosse ‘brava a scrivere', per usare un'espressione capricciosa. Dopo aver letto quel testo l'ho contattata e abbiamo cominciato a parlare via mail. Voglio chiarire subito che il mio apporto è stato esiguo rispetto alla sua crescita esponenziale. Il suo libro è nato semplicemente da una qualche fiducia riposta nelle sue capacità e dalla circostanza di poter spendere del tempo semplicemente a riflettere. Ne è uscita una raccolta che adoro, perché stilisticamente è modernista, alla Atwood, e prende una direzione che in questi dieci anni ho faticato moltissimo a indicare. Una raccolta coesa che trae dalla polifonia tipica di questa forma il suo meglio, cavalcandola piuttosto che subendola. Selenide gravita attorno a una figura che dovremmo chiamare protagonista, ma che avendo la caratteristica di essere impalpabile per carattere, muove e influenza le vicende degli altri personaggi a partire da un vuoto. Protagonista, in questo modo, è la relazione. Qualcosa di molto contemporaneo. Che si situa in una strada possibile della letteratura. In maniera molto matura, secondo me. 
Alle piccole case editrici a volte riescono colpi impossibili: come siete riusciti a pubblicare una leggenda della letteratura come Gordon Lish, mitologico editor di Raymond Carver?  
In realtà non è stato un colpo impossibile! È bastato scrivere a chi di dovere. Lui stesso ci è parso tutto fuorché barricato. Anzi, con Stefano Friani è stato gentilissimo. Squisito, direbbe lui. Per quanto sia complicato mandare avanti la baracca, Racconti è nata con un senso. Per certi versi era implicito che si potesse pubblicare Lish. Poi magari non ci riesci. Ma il catalogo è molto coerente da questo punto di vista. La short story americana è stata esplorata per bene: Welty, Cheever, Baldwin, Wright, Wolff, Michaels. Sono nomi enormi. 
 
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