Le “sliding doors” del 24 ottobre. Prima Caporetto poi Vittorio Veneto

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AGI - Stesso giorno a un anno e un’ora di distanza per i due estremi della guerra degli italiani, dalla caduta della bruciante sconfitta che poteva persino essere definitiva all’ascesa della vittoria decisiva. Per caso, e non per scelta di rivincita. Il 24 ottobre 1917 alle 2 l’inizio del cannoneggiamento seguito dal disastro di Caporetto, il 24 ottobre 1918 alle 3 il fuoco dell’artiglieria preannunciava l’ultimo attacco e la fine di quel conflitto che con Vittorio Veneto completava il processo risorgimentale con Trento e Trieste, ma lasciava uno strascico sociale e politico che avrebbe schiuso la porta al ventennio fascista e alla nuova tragedia della seconda guerra mondiale. Ambedue le battaglie, viste dalle opposte prospettive, erano ampiamente annunciate, ma né l’Italia prima né l’Austria-Ungheria dopo riuscirono a impedirne le conseguenze. 

Un disastro annunciato dai piani strategici consegnati da disertori

Un comandante di compagnia e un ufficiale di collegamento in divisa austroungarica si erano consegnati ai soldati italiani il 21 ottobre 1917 sulla linea del monte Vodil. Erano disertori di nazionalità romena e portavano informazioni preziosissime con documenti e disegni su una gigantesca operazione d’attacco su tutto il fronte italo-austriaco. Agli italiani, appena il giorno prima, era stato riferito di un piano simile da un tenente di nazionalità boema e da un militare polacco. Al Comando di Cormons i romeni riferiscono di "inaudita grandiosità di mezzi che consenta la rapida risoluzione della guerra mondiale su questa parte di fronte" e forniscono ogni tipo di dettaglio: attacco puramente dimostrativo nel Trentino e nel Goriziano, dalle 2 del mattino quattro ore di fuoco di artiglieria con granate a gas, poi un’ora e mezza di saturazione di artiglieria sulle prime linee, quindi l’assalto della fanteria «senza preavviso e nel più assoluto silenzio.

L’obiettivo del primo giorno è Caporetto, quello strategico è di spazzare via il Regio Esercito provocando l’uscita dell’Italia dalla guerra. Per questo l’esercito imperial-regio è stato rinforzato da sette divisioni tedesche di truppe scelte. I due ufficiali dichiarano che tutto avverrà, dopo un paio di rinvii dovuti al maltempo, tra 25 e 26 al massimo. Il Comando supremo sa dunque tutto ma non dà credito totale a quelle informazioni. Il generale Luigi Cadorna a settembre pensava a un’altra offensiva sull’Isonzo, la dodicesima, ma la notizia di truppe tedesche fatte affluire sul fronte italiano l’avevano consigliato a studiare persino un ripiegamento sulla linea meno estesa del Piave e aveva allora optato per una strategia più prudente di cui aveva diramato i piani operativi.

 

Solo che il generale Luigi Capello, comandante della 2a Armata, li aveva interpretati come un’autorizzazione a coltivare i suoi, di piani, che erano controffensivi sulle ali dello schieramento. Tutti i servizi di controspionaggio, italiani e alleati, allertavano a ottobre dell’imminente attacco austro-tedesco. Il contrattacco di Capello è escluso già il 20 ottobre, ma il Comando supremo continua a dare all’offensiva nemica di cui conosce i piani solo una valenza locale e limitata. Poi i generali ci mettono di loro.

Quando il colonnello Alfredo Cannoniere chiede al suo superiore Pietro Badoglio di poter aprire il fuoco con le artiglierie dopo aver intercettato una comunicazione nemica che preannuncia l’attacco alle 2 del 24 ottobre, il generale risponde di no: "Assolutamente non si cambi nulla; abbiamo munizioni per soli 3 giorni. E non so se te ne potrò fare avere. Ad ogni modo, ci vedremo". Non ce ne sarà il tempo e non si vedranno. E, soprattutto, in mancanza di ordini i cannoni taceranno.

Nel 1918 il punto di svolta con la mutata situazione politico-militare

Il quadro dell’ottobre 1918 è assai diverso. La linea del Piave prevista da Cadorna è stata tenacemente difesa e il nuovo comandante in capo Armando Diaz ha ricostruito l’esercito falcidiato da perdite, rese e sbandamenti durante la rotta della ritirata generale. Sono stati chiamati alle armi i ragazzi della classe 1899, il vitto è stato migliorato negli standard qualitativi e quantitativi, il ricambio in prima linea è assicurato, ai soldati sono garantite licenze, il morale è buono dopo che si era rischiato il tracollo totale. Lo scenario è totalmente cambiato.

Sono gli imperi centrali a essere in difficoltà, e quello austro-ungarico è pesantemente in crisi sul fronte interno. Le spinte centrifughe delle nazionalità si aggiungono alle gravi carenze alimentari e negli approvvigionamenti. C’erano già nel 1917, ma il successo folgorante di Caporetto aveva consentito ai soldati di appropriarsi delle riserve italiane, saccheggiando tutto quello che trovavano sul territorio attraversato dall’avanzata, con violenze sulle popolazioni civili che per sfuggire a rapine, uccisioni e stupri si erano unite alla massa di militari in ritirata.

Vienna non aveva più la forza per dare una svolta alla guerra, i tentativi di giungere a un armistizio per via diplomatica erano caduti nel vuoto. E stavolta gli austriaci, a ruoli invertiti, sapevano esattamente che gli italiani stavano preparando un’offensiva che, se ben condotta, si sarebbe rivelata letale. A questo spingevano anche gli alleati dell’Intesa, che strategicamente si stavano impegnando a un attacco generale e su tutto il fronte. Diaz era più scettico, ma Roma premeva politicamente: era preferibile una sconfitta all’inazione.

Qualcosa di simile era stato detto dal presidente del consiglio Francesco Crispi al generale Oreste Baratieri nel 1896, e aveva partorito la disfatta di Adua. Ma adesso le condizioni per la vittoria ci sono tutte: l’esercito è motivato, ben armato e ben sostenuto dalle artiglierie, i soldati credono nel successo definitivo e quindi nel ritorno a casa, ci sono truppe di rinforzo inglesi, francesi e americane, persino i cecoslovacchi si sono costituiti in esercito di liberazione con uniforme italiana e mostrine nazionali. Diaz aveva rotto gli indugi e l’ordine di operazioni era arrivato ai comandi di zona il 22 ottobre. L’ora X era fissata per le 3 del 24 ottobre.

I cannoni pesanti avevano aperto un massiccio e insistente fuoco sulle linee nemiche e a partire dalle 5 i soldati in grigioverde erano usciti dalle trincee secondo quanto previsto nei piani. Anche se gli austriaci si aspettavano l’attacco, l’onda d’urto dopo l’attraversamento del Piave, nonostante ritardi, imprevisti e segnali di crisi, e nonostante le alte perdite sul Grappa per i contrattacchi nemici, avrebbe avuto conseguenze devastanti per il fronte. E per l’impero degli Asburgo che non sarebbe sopravvissuto alla sconfitta.

La rotta in disordine a ruoli invertiti e la fine dell’impero degli Asburgo

Il 27 ottobre l’imperatore Carlo aveva informato il kaiser Guglielmo II di aver chiesto al presidente degli Usa Woodrow Wilson un armistizio immediato e una pace separata tramite la Svezia, con la fine dei combattimenti degli imperiali su tutti i fronti. Le unità della Honved smaniavano per tornarsene in Ungheria, e gli slavi mitteleuropei e del sud altrettanto per costituire Cecoslovacchia, Polonia e Jugoslavia. Il vecchio mondo andava in frantumi assieme alla tenuta dell’esercito degli Asburgo che si sgretolava in una ritirata generale e disordinata mentre gli italiani dilagavano verso Trento e Trieste.

Una Caporetto a ruoli invertiti. A Vittorio Veneto si consumava l’epilogo ormai scontato che, col crollo austriaco, travolgeva pure le capacità di resistenza della Germania. Il 3 novembre a Villa Giusti veniva firmato l’armistizio con efficacia l’indomani, e la Grande guerra terminava sul fronte italo-austriaco una settimana prima che su quello franco-tedesco, l’11 novembre. Diaz firmava il Bollettino della vittoria che, dopo essere stato diffuso alla radio, inciso sul marmo sarebbe apparso moltiplicato negli edifici pubblici di tutt’Italia. Anche nelle scuole, dove però nei dizionari di italiano sarebbe entrata Caporetto come neologismo: la disfatta per eccellenza, il disastro assoluto. La nostra Waterloo.

 

 

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