AGI - Un ormone prodotto dalla tiroide potrebbe essere la chiave per controllare la crescita del tumore alla prostata, una delle neoplasie più diffuse tra gli uomini. A rivelarlo è uno studio internazionale guidato dall’Università di Umeå, in Svezia, e dalla Medizinische Universität di Vienna, che ha individuato nel recettore dell’ormone tiroideo TRβ un nuovo potenziale bersaglio terapeutico. Bloccando la sua attività con una sostanza sperimentale, i ricercatori sono riusciti a rallentare la proliferazione delle cellule tumorali e a ridurre le dimensioni delle masse nei modelli animali. Lo studio, pubblicato sulla rivista Molecular Cancer, apre la strada a un possibile approccio farmacologico per i casi più aggressivi e resistenti alle terapie ormonali tradizionali.
Il gruppo di ricerca, coordinato da Lukas Kenner, visiting professor all’Università di Umeå e docente di patologia alla Medizinische Universität di Vienna, ha osservato che l’attivazione del recettore TRβ da parte dell’ormone triiodotironina (T3) stimola la divisione delle cellule tumorali prostatiche. Quando invece il recettore viene inibito con un composto sperimentale, denominato NH-3, la crescita cellulare diminuisce in modo significativo. “I risultati indicano che TRβ agisce come un motore della proliferazione tumorale – ha spiegato Kenner – e che le molecole capaci di bloccarne l’attività potrebbero diventare la base per nuovi farmaci contro il carcinoma prostatico”.
Nei test condotti su modelli murini, la somministrazione di NH-3 ha dimostrato di rallentare o fermare la crescita delle masse tumorali, soprattutto nei casi di tumore cosiddetto “castration resistant”, cioè refrattario alle terapie che riducono i livelli di testosterone. Queste forme, tra le più difficili da trattare, continuano a crescere anche dopo la soppressione ormonale. L’inibizione del recettore TRβ ha interrotto la trasmissione del segnale dell’androgeno, la via di comunicazione molecolare normalmente attivata dal testosterone e fondamentale nello sviluppo del tumore prostatico.
“Spegnendo il recettore tiroideo – ha sottolineato Kenner – si riesce a neutralizzare indirettamente anche il segnale androgenico che alimenta il cancro”. Per verificare la validità del meccanismo anche nell’uomo, i ricercatori hanno analizzato campioni di tessuto provenienti da coorti di pazienti affetti da carcinoma prostatico. In queste biopsie, i livelli del recettore TRβ risultavano significativamente più elevati rispetto a quelli dei tessuti sani. Le analisi genetiche hanno inoltre evidenziato mutazioni in numerosi pazienti che alterano le vie di segnalazione dell’ormone tiroideo. “L’evidenza clinica – ha spiegato Kenner – conferma il ruolo del recettore come fattore di progressione. Intervenirvi farmacologicamente potrebbe rappresentare una strategia mirata per i casi in cui le terapie ormonali convenzionali non funzionano più.”.
Il composto NH-3 utilizzato nello studio non è ancora adatto all’uso clinico: al momento è impiegato solo in ambito sperimentale per studiare il blocco del TRβ. Tuttavia, i ricercatori ritengono che la scoperta possa favorire lo sviluppo di molecole simili ma più sicure e specifiche. L’obiettivo è creare farmaci capaci di inibire il recettore tumorale senza compromettere l’equilibrio ormonale della tiroide.
“Si tratta di un bilanciamento complesso – ha osservato Kenner – perché interferire con la funzione tiroidea può avere conseguenze sistemiche. Ma la nostra ricerca dimostra che la via del TRβ è una pista concreta per nuovi approcci terapeutici”. Il carcinoma prostatico è la seconda forma di tumore più comune tra gli uomini nel mondo. Se diagnosticato precocemente, può essere trattato con successo grazie a interventi mirati a ridurre il testosterone. Tuttavia, molti pazienti sviluppano resistenze, rendendo le opzioni terapeutiche limitate. La scoperta di un collegamento tra ormoni tiroidei e proliferazione prostatica suggerisce un cambio di prospettiva: non solo agire sugli ormoni maschili, ma anche modulare quelli prodotti dalla tiroide per spegnere i meccanismi di crescita del tumore. “Naturalmente sarà necessario un ulteriore lavoro per capire come integrare questo approccio con le terapie esistenti – ha concluso Kenner – ma i dati indicano che intervenire sull’asse tiroide-prostata potrebbe offrire una nuova arma contro le forme più aggressive e difficili da trattare”.







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