Amare New York dalla Tredicesima Strada

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AGI - C'è una New York della fine degli anni '70 e dei primi anni '80 raccontata in cento modi diversi nei memoir di rockstar, stelle del glam, artisti logorati dal successo e dalla droga che è insieme spaventosa e affascinante.

Era una città - in massima parte non esiste più, se non nei tour nostalgici, divorata dallo yuppismo prima e dalla digital economy poi - aspra e difficile, magica e inquietante, in cui chi proveniva dall'altra parte dell'oceano non vi arrivava più con lo spirito di chi fugge dalla fame e dalle persecuzioni, ma senza ancora la determinazione della Gen Z ad accaparrarsi il proprio morso della mela.

Per chi sia passato da New York nella prima metà degli anni '90, quella generazione di italiani arrivati dieci, quindici anni prima senza cellulari né posta elettronica, da un mondo in cui comunque il legame con la propria terra e la propria famiglia era ben diverso da quello degli immigrati dell'ondata degli anni '50, erano un punto di riferimento. E lo sono ancora, a dirla tutta.

 

Erano il primo vero caso di 'fuga di cervelli', studenti brillanti che non sognavano solo l'America, ma anche la Cina, il Canada, l'Australia e soprattutto erano in fuga dalle baronie accademiche (lo avevano capito meglio e più di tanti loro successori) che non avrebbero lasciato loro spazio.

Avevano fatto domande di borse di studio e lettorato dappertutto e molti di loro sono approdati al giornalismo. Alcuni sono diventati degli esempi di giornalismo 'buono', quello etico e virtuoso che sembra una leggenda nel mondo dell'informazione così ben raccontato da Ben Smith nel libro 'Traffic'. E sono stati un punto di riferimento per altre generazioni di giovani giornalisti approdati in America dopo di loro.

Due nomi su tutti, quelli di Luciana Capretti e Stefano Trincia, giornalista della Rai lei, corrispondente del Messaggero lui, arrivati a New York con una laurea in lettere e una in slavistica, con in tasca pochi soldi, ma nel cuore la determinazione a fare i salti mortali, non per conquistare  la città, ma per viverla e conoscerla come andava (e andrebbe) vissuta e conosciuta qualunque città: facendone la propria casa, non una preda da spolpare o un organismo di cui diventare parassita.

La loro storia è raccontata da Luciana, ora che Stefano non c'è più, nel libro 'Tredicesima strada' (Edizioni Galaad)  in cui è Capretti la narratrice in presa diretta.

Un memoir della città, certo, ma soprattutto una grande storia d'amore, di quelle che piacerebbero tanto al cinema, e che se ruota intorno a quella Tedicesima Strada che è stata la loro casa, parte dall'attivismo di sinistra e dalla voglia di scoprire per poi perdersi tra le strade di una città che non ha nulla di patinato, ma è caotica, ricca, pezzente e puzzolente palcoscenico per personaggi improbabili. Tutto raccontato con un linguaggio che è nostalgico, ma anche divertente. Si passa dalle stanze prese in prestito a quelle date in prestito, dai mille traslochi e i mille lavori ai colpi di fortuna, ai trucchi per sopravvivere, viaggiare gratis, telefonare a casa e poi insegnare tutto a chi arrivava dopo di loro.

Tredicesima Strada è un atto d'amore non solo di Luciana per Stefano né di Capretti a New York. È l'epopea di una generazione di  giovani italiani che in quegli anni, in quella città, arriva con curiosità e con il cuore aperto e trova opportunità inimmaginabili.

 

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