È il difensore d'ufficio del VAR, acronimo di Video Assistant Referee, croce e delizia di appassionati, tifosi e giornalisti. Sorride, perché da quasi sette anni – da quando è stato introdotto il suo assistito – va cercando una memoria difensiva solida, difficile da attaccare. Una che riesca a dimostrare, fuori da ogni ragionevole dubbio, l'efficacia e il ruolo di questa tecnologia e di questa intelligenza, semi-artificiale, nel calcio contemporaneo.
Raggiunta l'aula, davanti alla giuria popolare più scalmanata del mondo – quella dei social – non si scompone. Poggia il plico sulla scrivania, si sistema la giacca e inizia la sua arringa. “Senza il VAR staremmo parlando di un'altra partita. Di un altro risultato. E forse – dico forse – in finale ci sarebbe una squadra diversa. Solo l'intervento, e la presenza costante, di questa tecnologia ha permesso di sanare le ingiustizie, aiutare l'arbitro nelle sue decisioni e, in definitiva, rendere più meritocratica questa sfida.” Parla con fermezza, come chi sa di avere la moviola dalla sua parte. Non alza mai la voce: gli bastano i replay. Le immagini non mentono, dice. O almeno mentono meno degli uomini.
Tra distopia e realtà
Proviamo a continuare questo gioco stilistico per provare a riflettere – davvero – sul ruolo che il VAR ha avuto nella semifinale di Champions League tra Inter e Barcellona, che ha visto prevalere, al termine di due partite epiche e 13 gol complessivi, la squadra allenata da Simone Inzaghi.
Cominciamo dalla gara d'andata, e da quell'episodio che ha gelato l'esultanza nerazzurra: il gol annullato a Henrikh Mkhitaryan. Il centrocampista armeno, in contropiede, è lesto a infilare la porta difesa da Wojciech Szczęsny – vecchia conoscenza del calcio italiano – per quello che sarebbe stato il 4-3 dell'Inter.
Dai palazzi milanesi si alzano, distinte e rumorose, le urla di gioia dei tifosi. È un gol che pesa: vorrebbe dire uscire dal Camp Nou con la prospettiva di potersi accontentare di due risultati su tre, a San Siro. Manca solo un quarto d'ora al fischio finale. Ma le grida si strozzano in gola. Il VAR entra in campo. Il check è lungo, teso. Si tratta di centimetri. La classica punta del piede. È oltre. Gol annullato.
In quel caso, tra brioche e cappuccini nei bar di tutta Milano, l'udienza mattutina dell'avvocato è stata più complicata del previsto. “Quel fuorigioco non è mai fuorigioco. Non c'è luce tra attaccante e difensore. State rovinando il calcio". Ha dovuto incassare, provando a rilanciare. Niente da fare. Al tifoso deluso – e ancora aggrappato alla speranza – è inutile spiegare che le regole non si cambiano in corsa. Ma una cosa è certa: le tecnologie, proprio perché umane, perfettibili, quelle sì, si possono migliorare. Basta aspettare la fine della stagione, riflettere, correggere, ripartire. Ma adesso no. Adesso si gioca. E sentirsi derubati, per quanto comprensibile e umano, non basta per condannare un imputato – anche se quel tribunale è solo una metafora, e il colpevole è solo una macchina.
Il Var a San Siro
È dentro il tempio del calcio italiano, però, che il VAR decide di mostrarsi al meglio delle sue possibilità. E riguadagna punti persino agli occhi del tifoso più scettico, più legato alla tradizione, più inviso alle novità. L'avvocato non si lascia sfuggire l'occasione: “Cosa sarebbe successo, oggi, se l'arbitro Marciniak non fosse stato richiamato a osservare le immagini dell'intervento di Pau Cubarsí su Lautaro Martínez?” La risposta è semplice: quel rigore non sarebbe mai stato assegnato. E la partita, in uno degli infiniti universi paralleli del calcio, avrebbe potuto prendere altre direzioni.
E invece quel rigore, al netto delle polemiche – che dalla Catalogna continuano ad arrivare fitte – è merito del VAR. Non si discute di tocchi leggeri o pesanti, di mani attaccate o meno, di spinte ambigue. Qui c'è solo un difensore che entra alla disperata, e un attaccante che, con la lucidità dei fenomeni, sposta appena quel tanto il pallone da subire il fallo e guadagnare un vantaggio. Tutto chiaro, tutto visibile. A patto di avere la tecnologia che lo mostri e lo dimostri.
L'avvocato si tira su le maniche. È il momento di affondare il tackle, quello decisivo, da 'difensore' navigato. “E cosa sarebbe successo se il VAR non avesse richiamato lo stesso Marciniak per rivedere il rigore assegnato al Barcellona per il contatto tra Mkhitaryan e Yamal? Dentro l'area o fuori? Avreste saputo dirlo? Grazie al VAR – e ai gesti chiari, quasi didattici, dello stesso Marciniak – oggi sappiamo che era fuori. Di ‘tanto così'. Ovvero: di pochissimo”. Una manciata di centimetri. Ma centimetri che possono cambiare la storia del calcio. Senza quella rettifica, i blaugrana avrebbero avuto un rigore. Un'occasione d'oro per cambiare, ancora una volta, il destino di entrambe le squadre. Forse per riscrivere la semifinale. Forse la finale. Forse la coppa. Chi lo sa.
Senza contare, poi, le volte in cui non è intervenuto, restando vigile, testimone attento di ciò che accadeva in campo. Come sul gol di Acerbi, in pieno recupero. Il Barcellona protesta, urla al fallo di Dumfries su Gerard Martín. Chiede giustizia. Chiede il VAR. Ma stavolta, il VAR non interviene. E non lo fa perché non c'è nulla da correggere. Il contatto c'è, sì, ma non è fallo. È parte di un duello fisico regolare, di quelli che in una semifinale di Champions si vedono cento volte e che raramente vengono fischiati.
“Il VAR non è infallibile”
Lo è stato anche ieri. Il riferimento è all'episodio che (forse) sfugge al campo e quasi anche alle telecamere. Acerbi, subito dopo il gol di Calhanoglu, si gira verso il direttore di gara e accusa: “Mi ha sputato”. Il dito è puntato contro Inigo Martínez. Le immagini non sono nitide, il contesto è confuso. Il VAR osserva, ma non interviene. Non c'è chiara evidenza. Non c'è prova. È probabile che il fattaccio sia accaduto ma è l'arbitro a decidere. E stavolta lascia, comprensibilmente, correre.
In aula è sceso il silenzio. L'avvocato, con il tono pacato di chi sa di aver giocato tutte le buone carte che aveva in mano, chiude la cartella e rimette il plico sotto l'ascella. "Nessuna tecnologia potrà mai mettere tutti d'accordo. Ma quando serve, quando davvero serve, il VAR c'è. Silenzioso ma presente. E stavolta – che piaccia o meno – ha fatto la differenza".
La parola, ora, passerà all'accusa. Basta solo aspettare un'altra partita, un altro episodio al limite. E il gioco delle parti in quella che, alla fine, è l'udienza più lunga di sempre, con la giuria più ampia di sempre e senza un giudice che possa emettere, davvero, una sentenza finale.