AGI - A tre decenni dal suo esordio sugli scaffali (avvenuto sotto le gloriose insegne di Theoria), è da poco tornato in libreria grazie a Feltrinelli ‘Il dipendente' di Sebastiano Nata. Un'imprevista riscoperta editoriale che alla prova di lettura, o rilettura, genera una sensazione non definibile altrimenti che di godimento. Così ferocemente attuale da sembrare appena scritto, questo sfrenato romanzo affronta il tema cardine del nostro tempo, la sua assurdità, innescando un meccanismo di retroversione degli anni. Che ridà respiro al tormento di quei romantici '90 in cui pareva ancora possibile evitare l'approdo in questa terra d'oblio di noi stessi che nel 2025 ha definitivamente preso il nome di realtà. Se scrittore è chi possiede una visione, coraggio nell'esprimerla e generosità nel comunicarla senza sconti, ‘Il dipendente' fa prova che in Italia pochi possono dirsi tali più di Sebastiano Nata. Che abbiamo incontrato.
Come nasce l'idea di riscoprire ‘Il dipendente'?
Mentre scrivevo l'ultimo libro, ‘Memorie di un infedele', la mia agente Fiammetta Biancatelli mi ha chiesto di leggere quello con cui avevo esordito. L'ha talmente entusiasmata da riproporlo a Feltrinelli, che l'aveva già pubblicato nel 1997 dopo l'uscita con Theoria. Infine Anita Pietra, Editor dell'Universale Economica, ha deciso di ristamparlo per il trentennale. La prefazione di Emanuele Trevi gli ha regalato peso. La sua penna può rendere un romanzo un classico nel suo genere.
Da cosa scaturiva l'intuizione di incentrare ‘Il dipendente' sulla figura di un manager del settore finanziario allo sbando?
Dall'esperienza. Pur trasfigurando la realtà, il romanzo si basa su un vissuto professionale ed emozionale reale: sono stato un manager che viveva per vendere carte di credito. Partire da una base di conoscenza aiuta ad estrarre il succo di verità d'una storia. Ho letto molti libri i cui protagonisti lavoravano nella finanza e mi sono sempre accorto se gli autori avessero raccolto informazioni o sperimentato le situazioni descritte. Pochi hanno l'abilità di Simenon di raccontare in modo credibile professioni mai svolte. Serve talento.
Lei si chiama Gaetano Carboni: perché scrive sotto pseudonimo?
Nel 1995 ‘Il dipendente' poteva essere considerato trasgressivo e amorale. Argomenti come l'amore tra donne o i rapporti con i trans suscitavano scandalo. Il fatto che dopo l'uscita avrei dovuto continuare a vendere prodotti finanziari con il mio nome m'indusse alla prudenza. Peraltro inutilmente: la risonanza del libro mi portò alla ribalta del Costanzo Show, mentre scoprivo che nel mio settore non importava a nessuno che scrivessi; continuavano a vedermi come fornitore di servizi. Scelsi Nata ispirato da un amico francescano di nome Natalino. Il Sebastian Knight di Nabokov ipotizzato da Trevi è geniale, ma non vero.
L'idea di un libro sul lavoro sarebbe ancora attuale?
Il tema resta centrale, perché tutti spendiamo ancora molto tempo nella dimensione lavorativa. Nella maggior parte dei casi sentendoci ingranaggi di un meccanismo che crea infelicità. Non conta l'individuo, solo che faccia parte di una struttura che produce massimizzazione del profitto: le multinazionali se ne preoccupano come una mamma del proprio bambino. Il punto è che nella tensione che da sempre esiste tra capitale e lavoro, il secondo è asservito al primo. E le disuguaglianze crescono. Dalla seconda guerra mondiale agli anni ‘80 diminuirono perché il capitale era tassato; ma ora, in percentuale, lo sono maggiormente i redditi di chi svolge attività subordinate. La tecnologia ha trasformato ogni cosa, ma non si registrano inversioni di tendenza a proposito della progressiva vittoria dei ricchi sui poveri.
Uno stile sincopato marchia il libro, come c'è arrivato?
Pur considerando impossibile imitarli, ai tempi leggevo Beckett e Celine: qualcosa forse sarà filtrato. Come ipotizza una prefazione di cui sono sinceramente riconoscente. Lo stile sincopato mima la mancanza di respiro del protagonista Michele Garbo, il suo affanno. Sempre in ritardo sugli obiettivi prefissati, vive di corsa, senza fiato. Usa frasi brevi perché parla a se stesso. Non ha idee complesse, dà voce ad emozioni. Che vibrano, si spezzano.
Cosa resta delle speranze di evitare l'omologazione dei giovani degli anni '90?
In quel decennio sopravviveva l'illusione di poter cambiare le cose insieme: ora non esiste quasi più. Con i suoi meccanismi di remunerazione, il capitalismo ha generato individualismo rendendo la solidarietà un concetto lontano dal quotidiano. Sentirsi soli uccide la speranza di cambiare le cose. E' rimasta l'indignazione per livelli di ingiustizia insostenibili. Quanto succede a Gaza colpisce i miei figli, come i dati che raccontano il crescere negli ultimi anni, a livello globale, della disuguaglianza tra pochi miliardari e milioni di indigenti. Ma passare dall'indignazione all'azione non è semplice. Una volta Falcone disse che la mafia, come ogni fenomeno umano, avendo avuto data di nascita ne avrà di morte. Anche questo tipo di capitalismo ingiusto ha
conosciuto un inizio ed un giorno finirà. Io ci credo.
Sta scrivendo?
Ho terminato un romanzo che uscirà per Frassinelli nei prossimi mesi. Tratta di uno scrittore senza successo che continua a inseguirlo. Finché l'esperienza di solidarietà in un centro per il recupero di ragazzi di strada in Etiopia lo rende consapevole che la sua salvezza non risiede nel prendersi cura del proprio ego, ma degli altri.